Il 2022 non è un anno qualsiasi. È l’anniversario della pubblicazione dello storico report The limits to growth commissionato dal Club di Roma e realizzato dai ricercatori del MIT, ma è chiaro che in Italia e nel mondo non stiamo celebrando questo importantissimo studio, né gli altri 53 studi e ricerche che ne sono seguiti.

Le conclusioni dei report sono da brividi, come lo sono le ricerche internazionali sul clima, sulle estinzioni delle specie, sulla biodiversità e il raccordo di tutte queste ricerche pubblicate nei report dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES) e dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite.

Le conclusioni sono chiare e non lasciano scampo: la crescita di popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti con il suo diffuso modello del consumo di carne e, quindi, il consumo di tutte le risorse naturali ci condurranno entro la fine di questo secolo al declino della nostra civiltà distruggendo anche le conquiste sociali e civili conquistate dalla storia dell’umanità.

Nel 1972 la Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente con la Dichiarazione di Stoccolma diventa la tappa fondamentale per il Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) dello stesso anno a Nairobi in Kenia. È da quell’anno, esattamente 50 anni fa, che sappiamo che fallire sulla salvaguardia delle risorse naturali significa un fallimento non dell’uomo ma della specie umana. 50 anni dopo non abbiamo imparato nessuna lezione, 50 anni dopo non stiamo reagendo come dobbiamo, 50 anni dopo non siamo qui a celebrare una buona notizia ma due cattivissime notizie: a gennaio abbiamo superato uno dei 9 limiti planetari (https://www.mymovies.it/film/2021/superare-i-limiti/) riguardante l’inquinamento chimico e ad aprile il limite dello sfruttamento delle risorse idriche.

Ciò nonostante manca ancora una vera e propria internazionale ambientalista o ecologista dei popoli. Su tutto questo l’umanità fischietta tra un aperitivo, un turno di lavoro e vite dedicate ad arricchire il proprio conto in banca o devastate dal neoliberismo, senza la possibilità di dare un senso alla propria esistenza.

Per la prima volta nella storia non dobbiamo fare di più per migliorare le nostre condizioni ma di meno. Bisogna astenersi, oziare, rallentare, silenziarsi e non bisogna farlo per spirito di carità ma per spirito di necessità.

Ma come se nulla fosse accaduto in questi 50 anni siamo ancora nella trappola del Pil illudendoci di inseguire lo sviluppo anche quando abbiamo raggiunto una obesità patologica in molti settori. “La crescita economica è ora antieconomica – costa di più del suo valore marginale e ci rende sempre più poveri invece che più ricchi. Nascondiamo questo fatto con bilanci nazionali fallaci, perché la crescita è il nostro idolo e smettere di adorarlo sarebbe una bestemmia” ha scritto l’economista ecologico Herman Daly che ha lavorato nel Fondo Monetario Internazionale ed è scomparso nell’ottobre di quest’anno.

Molti sono abbagliati dal mito dell’efficienza e pensano che basti un po’ di tecnologia ed un po’ di innovazione per salvarci. Ciò non fa che ritardare il momento delle decisioni necessarie e, ogni giorno, le soluzioni utili sono sempre più drastiche e radicali. La verità è che la torta è finita e stiamo mangiando già quella dei nostri figli. Le dispense le stiamo svuotando come se fossero gli ultimi giorni della nostra vita.

Invece che cambiare stile di vita siamo disposti a cambiare pianeta, invece che rallentare il nostro ritmo di vita siamo disposti a regalare il nostro tempo vita al mercato digitale, invece di ridurre il nostro orario di lavoro siamo disposti a ridurre in lavoro la nostra vita, invece di ridurre i consumi ci siamo ridotti in consumo. Siamo il paziente in sala rianimazione che aspetta il disastro incombente.

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