Il governo ha giustamente deciso di prendersi più tempo per riformare in maniera adeguata il Reddito di cittadinanza. Le modifiche che entreranno in vigore nel 2023, però, rischiano di far ripetere gli errori fatti in passato.
di Massimo Baldini e Cristiano Gori (Fonte: lavoce.info)
Il rinvio della riforma, una decisione positiva
Dalla Legge di Bilancio emergono due indicazioni principali in materia di Reddito di Cittadinanza. Una è il rinvio della riforma complessiva al 2024 e l’altra è la riduzione del sostegno fornito ad alcuni gruppi di percettori nel 2023. Su questi due punti, la valutazione differisce.
Il posticipo dell’annunciata riforma al 2024 è positivo. Elaborare una riforma è sempre un’attività complessa e difficile, che per essere realizzata al meglio richiede un periodo adeguato: il fattore tempo è decisivo. Spesso, però, le leggi vengono emanate e applicate con troppa celerità, spinti dall’esigenza politica di mostrare all’opinione pubblica che si è in grado di affrontare un determinato problema rapidamente e senza esitazioni. Questo modo di agire porta abitualmente a licenziare nuove normative con disegni mediocri e insoddisfacenti: a farne le spese sono i cittadini. Bene ha fatto, dunque, il governo Meloni a prendersi il tempo opportuno per esaminare una materia così delicata.
Diversa è stata la vicenda dell’introduzione del Reddito di Cittadinanza, tra il 2018 e il 2019. La nuova misura, seppur contraddistinta da un alto grado di complessità, fu elaborata in pochi mesi e introdotta addirittura attraverso la decretazione d’urgenza, un iter particolarmente rapido utilizzato generalmente in caso di catastrofi naturali o di impellenti problemi di ordine pubblico. Gli esiti non furono positivi. Diverse carenze tecniche del Reddito sono dovute – ben più di quanto si possa immaginare – al semplice fatto che non vi è stato il tempo di approfondire le molteplici questioni legate all’adozione della nuova misura.
Nel merito della riforma, il governo ha confermato che intende realizzare quanto annunciato nel programma elettorale: sostituire il RdC con due misure, una rivolta ai poveri che non sono in condizione di lavorare e l’altra destinata a quelli che – invece – lo sono. Si vorrebbe affrontare così un limite intrinseco del reddito, il sovraccarico di obiettivi: voler essere, contemporaneamente, una politica di contrasto alla povertà e una politica attiva del lavoro. Seguire questa strada – già scelta da otto paesi europei (per esempio Germania, Spagna e Austria) – potrebbe rivelarsi una buona idea oppure portare a un disastro. Dipenderà da come la si tradurrà in pratica.
L’intervento transitorio, una risposta mal congegnata
L’auspicio è che la formulazione della riforma differisca dai contenuti dell’intervento transitorio previsto per il 2023. Il prossimo anno, alcune fasce di percettori del Rdc, potranno ricevere al massimo 8 mensilità rispetto alle 12 abituali. Il governo ha dichiarato che tale novità riguarda le persone con maggiori probabilità di trovare un impiego, i cosiddetti occupabili, che saranno accompagnati nella ricerca di tale risultato. Questa dunque è la logica: si riducono le mensilità a coloro i quali pensiamo che possano trovare un lavoro entro i prossimi otto mesi.
La definizione di occupabilità, però, è molto diversa da quella impiegata sinora. Nel Rdc, infatti, è considerato in tale condizione chi è senza lavoro da non più di due anni. Secondo il testo attuale della Legge di Bilancio, invece, gli occupabili – quindi le persone interessate al limite degli otto mesi – sono coloro i quali non vivono in famiglie con componenti disabili, minori o ultra 60enni. Tale indicazione ricalca fedelmente il programma elettorale di Fratelli d’Italia in materia di povertà, che annovera tra “i soggetti impossibilitati a lavorare o difficilmente occupabili”, e quindi esclusi dall’inserimento lavorativo, “disabili, over 60, nuclei con minori a carico”.
Dunque, l’occupabilità cambia radicalmente e può avere conseguenze molto rilevanti sulla possibilità di rimanere nella misura: finora è stata definita su base individuale e dipende dalla storia di ciascuno, ora diventa un’occupabilità “familiare” perché si fonda sull’assenza di figli minori, over 60 e disabili nella propria famiglia.
Numericamente, il gruppo più toccato sono le famiglie con figli, per le quali si introduce una regola peculiare: chiunque abbia un figlio minore non è occupabile. Evidentemente è arduo trovare un legame tra i nuovi criteri scelti e il concetto stesso di occupabilità legato alla capacità di trovate lavoro. Si intuisce, nella loro individuazione, una peculiare declinazione dell’attenzione che il nuovo governo attribuisce alla famiglia, aspetto che andrà approfondito. In ogni modo è evidente che il governo dichiara l’obiettivo del lavoro per le persone soggette al vincolo degli otto mesi, ma non coinvolge alcuni dei soggetti che hanno più probabilità di raggiungerlo.
Inoltre, per quanto concerne le probabilità dei percettori del Rdc di trovare un lavoro, vale la pena di ricordare le diverse ragioni degli scadenti risultati conseguiti fino ad ora.
Primo: il periodo di crisi economica riduce le opportunità di occupazione. Non a caso, il rimbalzo del 2022 si è accompagnato al calo del numero dei beneficiari del Rdc in tutto il paese, Sud compreso.
Secondo: i sottoscrittori del patto per il lavoro, spesso hanno caratteristiche (bassa istruzione, età avanzata, ecc.) che li rendono di per sé scarsamente occupabili.
Terzo: gran parte dei beneficiari del Rdc risiede nelle regioni del Sud, dove il lavoro non c’è. Metà di loro vive in due sole regioni, Sicilia e Campania. Tra i percettori del reddito, gli occupati sono relativamente più concentrati al Centro-Nord e tra gli stranieri. Questo dato confermerebbe che il problema più che l’offerta riguarda la domanda di lavoro (al Sud bassa).
Quarto: in questo quadro pesano tutti i problemi organizzativi e di organico dei servizi per l’impiego, che si sono trovati in pochi anni a dover seguire milioni di casi. I beneficiari tenuti alla stipula del patto presi in carico dai servizi per il lavoro sono stati solo il 42.5% (dati Anpal), quota che nelle regioni meridionali scende attorno al 33%.
Questo elenco segnala problemi di fondo sui quali sarà utile lavorare in una prospettiva di legislatura. È infatti irrealistico immaginare che simili criticità possano scomparire dall’oggi al domani. Una cosa, però, si può dire. Il governo Meloni pare sulla buona strada per ripetere un altro errore compiuto, a suo tempo, dai promotori del Reddito di Cittadinanza: quello di riporre aspettative eccessive nelle possibilità d’inserimento lavorativo dei percettori.
Per le ragioni mostrate sopra, però, simili aspettative non sono realistiche (perlomeno nell’immediato) ed è, quindi, ragionevole supporre che i risultati in termini occupazionali possano essere inferiori a quanto oggi prefigurato (e quindi con aumento di povertà e disagio sociale). Se così fosse, a farne le spese, sarebbe la legittimazione delle misure contro la povertà, esattamente com’è avvenuto con il Rdc. Questa è la storia che si ripete, purtroppo.