Circa un mese fa si era parlato di Antonia Graham, una ragazza che guadagnerebbe fino a 10.000 sterline al mese. Come? Abbuffandosi di cibo, senza limiti, pur di accontentare i suoi fan. E siccome a noi di FQMagazine piace andare oltre “il trend”, “la star del momento”, abbiamo intervistato un esperto per capire qualcosa di più non tanto sulla ragazza nello specifico, ma sul fenomeno in generale, il cosiddetto ‘feederismo’. Ecco cosa ci ha spiegato Andrea Daverio, psichiatra e psicoterapeuta di Roma.
Partiamo proprio dalla base: cos’è il feederismo?
La risposta a questa domanda varia a seconda della prospettiva che decidiamo di adottare. Comunemente, ci si riferisce al feederismo (dall’inglese to feed – nutrire) per descrivere tutte quelle pratiche in cui l’eccitazione/gratificazione viene elicitata sia dal “dare da mangiare” al partner, sia dai cambiamenti del corpo, dall’incremento ponderale e dalle misure/taglie sempre più ampie raggiunte attraverso la sovra – alimentazione. Se volessimo adottare una prospettiva sociologica/fenomenologica occorrerebbe specificare una serie di termini (ad esempio viene definita feedee la persona che viene nutrita; feeder, colui che “nutre”; encourager colui che sprona una persona a prendere peso); andrebbero inoltre fatte una serie di specificazioni volte a catalogare le diverse espressioni del fenomeno, da quelle in cui l’elemento consensuale è più evidente alle forme più coercitive. Infine, andrebbe distinto chi lo pratica nella sfera privata, da chi invece ne ha fatto una professione. Questo approccio descrittivo, se da una parte soddisfa una curiosità rispetto a un fenomeno poco noto, rischia di lasciare senza risposta la domanda circa il senso di questi comportamenti. Ritengo pertanto necessario esplicitare sin da subito che parlerò di questo fenomeno dalla prospettiva di chi si occupa di salute mentale, proponendo alcuni spunti sul significato che possono avere i rapporti interpersonali soprattutto quando nascondono forme più o meno visibili di violenza/aggressività.
Cosa accade nella mente di una persona che si presta a questo fenomeno? È solo una questione di guadagno o c’è dell’altro?
Siamo abituati a porci questa domanda di fronte ai numerosi fenomeni noti o emergenti del mondo virtuale. Lei mi ha nominato il caso di Antonia Graham. La streamer ha acquisito una certa visibilità a partire dal 2021 con una duplice attività: sui social mainstream (Tik-Tok, Instagram) postava foto, video e dirette streaming che promuovevano la cosiddetta filosofia “body-positive,” mentre sui canali a pagamento, come in uno spettacolo teatrale in cui l’attore interagisce
con il suo pubblico, dialogava con spettatori virtuali soddisfacendo le più peculiari richieste legate a pratiche feederistiche più o meno estreme. Grazie ai suoi follower (e ai suoi haters) l’eco delle sue gesta è stato sufficientemente potente da retribuirla con visibilità e notorietà. Il fatto stesso che stiamo approfondendo questo tema è per la verità segnale che lo scopo – esplicito o implicito – della influencer è stato raggiunto. Ma al di là del singolo caso (di cui non conosco la vita privata e che quindi non posso ulteriormente commentare), è possibile riflettere su tutte quelle situazioni in cui vengono proposte esibizioni “estreme” che frequentemente sono connotate da profonde differenze tra l’immagine pubblica e vita privata. A questo proposito mi viene in mente il recente film Pleasure che immagina il dietro le quinte di una modella svedese che decide di partire alla volta di Los Angeles per diventare “la pornostar più famosa di sempre”. Il film svela questo doppio volto: il primo – pubblico – veicolato dal prodotto finale (le riprese, i film, le dirette streaming) e il secondo – privato – in cui emergono drammatici vissuti di spaesamento, umiliazione, rassegnazione, anaffettività e violenza.
Quali interrogativi possono sorgere dunque?
Numerosi, nel momento in cui si affronta il tema del feederismo “pubblico” e delle pratiche più estreme ad esso collegate: penso al possibile effetto Werther, ovvero al pericolo di emulazioni, penso a come queste pratiche siano incompatibili con le campagne di sensibilizzazione sui rischi di una sovra-alimentazione e della conseguente obesità, che è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità una patologia. Penso al senso più profondo di questi comportamenti: è esibizionismo? Fa parte della normale variabilità dei comportamenti umani? E penso infine alla contraddizione tra l’apparente tranquillità mostrata dai/dalle performer e le inevitabili conseguenze sul loro corpo.
Il feederismo è un fenomeno mediatico recente oppure è un qualcosa che c’è sempre stato e di cui ci accorgiamo solo ora?
Ogni fenomeno mediatico nasce da fatti umani, che riguardano i rapporti tra le persone, e a loro volta i fenomeni mediatici influenzano i pensieri e l’agire delle
persone stesse: siamo esseri viventi relazionali e siamo influenzabili a vicenda, sia in positivo che in negativo. In estrema sintesi si può affermare che il feederismo trovi le sue radici in almeno due movimenti culturali: da una parte troviamo quel mondo “virtuale” noto (e nato) nei paesi orientali da circa un ventennio e caratterizzato dal rapporto tra uno o più performer e un pubblico virtuale che si lascia ammaliare dal potere erotico del cibo, dai dettagli delle riprese che vedono come protagonisti i vari alimenti assaporati, masticati, talvolta trangugiati e infine deglutiti (il cosiddetto mukbag). L’altro grande mondo è rappresentato da quelle comunità (virtuali e non) che nel ribellarsi ai diktat della cultura occidentale, ossessionata dall’apparenza e dalla forma fisica, negano tassativamente che l’obesità sia un problema o tantomeno una patologia. È da queste sottoculture che sono gemmate le pratiche legate al feederismo. Ed è interessante notare che i primi dibattiti sul senso e sulla “pericolosità” di tali pratiche siano nati proprio all’interno di queste comunità. Se ci si documenta sulle pratiche feederiste, si apprende che il feedee (ovvero la persona che viene nutrita) è quasi invariabilmente una donna e il feeder (colui che alimenta) è spesso un uomo. Mi domando se questa tipologia di rapporto, nei casi più estremi, sia inquadrabile in una “nuova” forma di violenza sulle donne. Nuova è virgolettato perché a ben riflettere il corpo della donna è ed è stato vittima di tentativi di controllo e manipolazione in moltissimi contesti ed epoche storiche: penso alla nostra cultura e a tutti quei messaggi più o meno espliciti che favoriscono l’omologazione dei canoni di bellezza e che sono da considerarsi fattori di rischio per l’insorgenza di disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia, binge- eating) (di cui ci occupiamo spesso anche noi di FQMagazine, ndr) penso anche a culture “altre” in cui l’alimentazione forzata delle bambine di buona famiglia è prassi comune per renderle più docili, per accelerare lo sviluppo dei caratteri sessuali e anticipare l’inizio dell’età fertile.
Immagino che parlando dei “casi più estremi”, si riferisse a quelle pratiche che prevedono l’alimentazione “forzata”; come si può inquadrare questo fenomeno?
Esistono certe correnti di pensiero che sostengono che se la coercizione deriva da una libera scelta, da una sorta di “consenso preventivo” decade il senso della coercizione stessa. Non è un caso che l’analogia tra feederismo e pratiche sadomasochistiche sia stata sottolineata in diversi studi. Nel sadomasochismo l’eccitazione risiede nel recitare in un ruolo (dominato e dominatore) avendo come paracadute una “parola di sicurezza” che quando pronunciata ristabilisce l’equilibrio tra i partner, dando potere al dominato di interrompere il “gioco” e obbligando il dominatore a obbedire. Se da una parte il feederismo condivide con il sado-masochismo l’elemento di coercizione e controllo quale veicolo dell’eccitazione, si differenzia da esso, in senso peggiorativo, perché nel sadomasochismo (r)esiste un certo grado di reversibilità (pronunciata la parola di sicurezza, si torna alla normalità). È possibile descrivere un continuum lungo il quale si dispiegano le pratiche feederistiche. In alcuni casi le pratiche feederistiche costituiscono “sperimentazioni occasionali” o giochi saltuari; in altri il controllo alimentare non è affatto un gioco temporaneo: non sembra esserci un punto di arrivo, perché l’esplicito obiettivo (l’origine dell’eccitazione e della gratificazione per entrambi gli attori) è l’incremento ponderale della partner; ci sono poi realtà più estreme in cui gli agiti divengono violenti e coercitivi anche grazie all’utilizzo di appositi strumenti, e vengono accompagnati da fantasticherie di controllo, possesso, umiliazione della partner.
Concludendo, cosa pensa la psichiatria di tutto ciò?
Nel corso di questa intervista ho provato a delineare alcuni degli elementi culturali, individuali e relazionali che caratterizzano questo complesso fenomeno. Gli strumenti dell’antropologia, della sociologia e della psichiatria culturale aiutano a comprendere da quali contesti emergono le pratiche feederiste. Occorre tuttavia una psichiatria intimamente connessa se non coincidente con la psicoterapia, che si interessi del senso (sia in termini personali che di rapporto interumano) che sottende a determinati comportamenti. Abbiamo visto come i singoli casi possano essere molto differenti tra loro: se quelli più “celebri” destano scalpore o curiosità, occorre tenere a mente che esistono altri casi, che raccontano storie drammatiche: nel caso dei fedee potremmo incontrare vissuti di sofferenza, disagio, depressione, emarginazione, rassegnazione. Nel caso dei feeder, storie di livore, cinismo, volontà di controllo, manipolazione. Ed è per questo motivo che la psichiatria dovrebbe interessarsi del feederismo: non tanto per aggiungere una nuova diagnosi o una nuova forma di parafilia, quanto piuttosto per comprendere il latente che sottende e sostiene questi comportamenti. Nel rapporto con i propri pazienti, lo psicoterapeuta concilia il doveroso rispetto della libertà individuale con il “dovere” di proporre una alternativa alla rassegnazione di chi pensa di non poter cambiare: molte relazioni vengono mantenute perché non si riesce a pensare/immaginare un’alternativa. Per questo viene proposta un’immagine e una dialettica che si oppongono a quella forza invisibile che spinge una persona a dare un consenso e ricercare rapporti anche quando le conseguenze nefaste (sul corpo e sulla mente) sono evidenti. La psicoterapia, rifiutando l’idea che la violenza/aggressività sia insita nell’essere umano, promuove una conoscenza del senso profondo dei propri pensieri, dei propri sogni e propone la riscoperta dei rapporti, specialmente quelli d’amore. All’interno di un percorso di cura si riscopre la capacità di amare e di vivere una sessualità realmente libera perché non lesiva né per la persona amata e né per sé stessi. Mi piacerebbe concludere prendendo in prestito le immagini del film “La Città Incantata” di Miyazaki in cui Chihiro, la piccola protagonista, riesce dopo mille peripezie a far tornare umani i suoi genitori che erano stati tramutati in animali dopo aver mangiato a dismisura pietanze stregate: la psicoterapia, come i rapporti d’amore sani, “nutre” senza lesività o pericoli di “indigestione” attraverso la riscoperta di affetti e pensieri che promuovono una trasformazione e realizzazione profonda di sé stessi.