“Mi sveglio alle 6, vado a surfare per un’ora nell’oceano davanti casa. Poi palestra e dopo lavoro. Seguo le varie aziende su tutti i mercati che abbiamo, da casa o dai caffè nell’isola, insieme ad amici e colleghi. Alle 17 ci rivediamo sulla spiaggia per un’altra sessione di surf al tramonto. Dopo cena invio le ultime mail, preparo il planning per la giornata seguente, ascolto musica e leggo. Quando non sono a Barbados, sono a esplorare il mondo. Per lavorare mi basta una connessione wi-fi”. Patrizio Ambrosetti è romano di nascita e “cittadino del mondo di adozione”, come ama definirsi. Ha lasciato l’Italia nel 2013: da allora viaggia da un continente all’altro per seguire e diffondere la cultura dei nomadi digitali. Attualmente si trova nell’isola caraibica Barbados, “il primo Paese che ha promosso un visto per nomadi digitali e lavoratori da remoto”.

Patrizio è cresciuto praticando sci a livello agonistico. Ma quando capisce che non riesce ad allenarsi abbastanza per entrare nel team nazionale, decide di concentrarsi sul mondo del lavoro. Facendosi una promessa: “Volevo imparare tutto ciò di cui ero capace dai 20 ai 25 anni”. “Coglievo ogni opportunità che mi capitava, anche senza essere retribuito – ricorda –. Dalla finanza agli eventi, dal digital marketing alle vendite”. Nel 2013 prenota un viaggio per New York: “Da quel giorno non sono più tornato in Italia. Ho iniziato a visitare il mondo: spendevo quasi tutto in viaggi. Ogni occasione era buona per salire su un aereo e partire”, racconta al fatto.it.

Nel 2015, quando Patrizio ha 27 anni, una startup americana, WeWork, con 25 sedi e 200 dipendenti, gli chiede di guidare l’espansione dell’azienda in giro per il mondo. “Lo sapevo fare? No, ma credo che quando ti capita un’opportunità bisogna coglierla”. Oggi l’azienda ha oltre 700 location nel mondo.

Dopo gli Stati Uniti Patrizio si sposta in Thailandia, dove contribuisce a creare la prima community di nomadi digitali. Poi l’Europa, dove è advisor di molte aziende di coworking e coliving. Oggi Patrizio, o Pat come preferisci farsi chiamare dagli amici, è imprenditore, ha un fondo di investimento negli Usa dove investe in startup per nomadi digitali, è Ceo di una media company che produce contenuti video per imparare a viaggiare, e presidente di una società di consulenza che aiuta gli alberghi in America Latina a innovarsi per accogliere i nomadi digitali. Collabora inoltre con diverse startup che creano servizi e prodotti per i remote workers.

Americani, spagnoli, olandesi, inglesi, tedeschi. Il segreto per lavorare con persone e Paesi differenti è non stravolgere la loro cultura, mai mettersi al di sopra, adattarsi, spiega Patrizio. “Il mondo non è così grande come tutti pensano. Si usano gli stessi idiomi, si pensa spesso in modi simili, si seguono gli stessi trend”.

Oggi Patrizio, 35 anni, passa buona parte dell’anno a Barbados, dove è residente. “Ci sono città in cui è molto conveniente vivere, come ad esempio Chiang Mai, in Thailandia, o Bali in Indonesia (diventata la meta preferita di molti nomadi digitali), e altre in cui il costo della vita è, invece, più caro, come ad esempio a Barbados”. Patrizio spiega che all’estero nessuno parla di “smart working” ma di “remote work” o “work from anywhere”. La pandemia ha fatto capire alle aziende che i dipendenti “possono essere produttivi anche fuori dall’ufficio – aggiunge –. Io stesso non entro in un ufficio dal 2015 e ho avviato 4 aziende. I miei dipendenti non sanno nemmeno cosa sia un ufficio, ma andiamo alla grande. Uscirei dal concetto che vuole il posto fisico a renderci più bravi e produttivi”. Per l’imprenditore romano stiamo per assistere ad “uno dei più grandi processi migratori della storia: i dipendenti – spiega – devono far capire ai propri manager che se non adotteranno politiche di remote working lasceranno l’azienda per un’altra più flessibile”.

Per Patrizio l’Italia resta il luogo dove sono nati i suoi sogni. “In Italia, c’è tantissimo talento, ottimo wi-fi, grande clima, e una varietà di città che possono farti vivere esperienze differenti. Credo che l’Italia possa diventare uno dei Paesi migliori al mondo per attrarre nomadi digitali”, aggiunge. Ci sono giovani che lasciano il Paese perché avranno più opportunità all’estero, risponde, chi va via perché si sente più apprezzato in un’altra città, chi vuole scoprire una nuova cultura. Un consiglio? Non ascoltare la propria famiglia, ma sentire il proprio cuore. E poi essere flessibili: cambiare la propria carriera più volte. “Siamo tutti nati con un sogno, ma spesso ce ne dimentichiamo”, sorride. “Non si può pensare di scegliere cosa fare tutta la vita quando abbiamo solo 20 anni – conclude Patrizio –. Chi parte non scappa: semplicemente cerca altro. Ci sono persone che sanno quello che vogliono, buon per loro. Ma chi non sa quello che vuole è, a mio parere, più fortunato perché potrà provare tante cose nella vita”.

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