Un patto di sangue tra affiliati quello che emerge nell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Napoli Linda Comella contro del clan napoletano composto dalle famiglie De Luca Bossa, Casella, Minichini, Rinaldi e Reale che ha portato alla notifica di 63 provvedimenti da parte di polizia e carabinieri nell’ambito di un’inchiesta sul racket delle case popolari. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono associazione di tipo mafioso, estorsione e detenzione di armi. Nelle carte dell’inchiesta emerge un racconto inquietante di un collaboratore. Tommaso Schisa, collaboratore di giustizia finito nel mirino del suo clan per essersi pentito nel 2015 aveva stipulato un patto di sangue: è lui stesso a riferirlo agli inquirenti, l’11 novembre 2019. “…Io e Michele Minichini (destinatario oggi di una misura cautelare in carcere ed elemento di spicco dell’omonima famiglia malavitosa) abbiamo fatto un patto di sangue. I termini erano questi: se mi fossi pentito io, egli avrebbe ucciso mia sorella… se si fosse pentito lui, io gli avrei ucciso la sorella…“. Quando la notizia del “pentimento” iniziò a diffondersi la sua famiglia venne presa di mira dal clan per impedirgli di fare rivelazioni: la sua abitazione venne subito selvaggiamente razziata. Poi venne avvicinato in carcere da un altro detenuto, un “lavorante”, che gli aveva passato “l’imbasciata” (il messaggio) di ritrattare. Schisa finse di accettare ma poi rivelò tutto alla polizia penitenziaria. Ne seguirono una serie di azioni violente ai danni della sua famiglia. La moglie, la notte tra il 13 e 14 ottobre 2019, denunciò ai carabinieri di essere stata minacciata da un gruppo di donne parenti del marito (appartenenti al gruppo delle “pazzignane”) che l’accusavano di essere l’artefice del pentimento dell’uomo. Malgrado respingesse con forza l’affermazione, una delle donne replicò dicendo che “…ti meriti di finire in un pilastro di cemento” e poi “non preoccuparti, ci vediamo tutti domani mattina e ti ammazziamo”.
Durante le indagini è stata scoperta anche la paternità di una “stesa” risalente alla notte 19 marzo 2019, spari contro i negozi della centralissima piazza Trieste e Trento di Napoli, a pochi metri da piazza del Plebiscito. Tutto a causa della rivalità tra i “De Luca Bossa-Minichini” e il clan Mariano dei Quartieri Spagnoli. Un altro settore dove il clan faceva affari è quello dell’imposizione delle pulizie, vere e proprie estorsioni ai residenti che fruttavano, per esempio, nel rione Conocal di Ponticelli, 20mila euro al mese. Ma la camorra organizzava anche matrimoni fittizi che favorivano l’immigrazione clandestina tra donne italiane ed extracomunitari, anche per 5mila euro di cui mille alla sposa. Nel settembre 2016 la “wedding planner” del clan, secondo un’intercettazione, ne avrebbe organizzati ben dieci, dato che, secondo gli investigatori, è indicativo della remuneratività di quel business. I reati ipotizzati, a vario titolo, sono associazione di tipo mafioso, estorsione e detenzione di armi. I destinatari delle misure cautelari sono gregari e vertici delle famiglie malavitose che fanno i loro affari illeciti nella periferia orientale di Napoli (quartieri Ponticelli, Barra e San Giovanni a Teduccio), in alcune zone del centro storico (Porta Nolana, Piazza Mercato) e anche in provincia, a Massa di Somma e Marigliano. Ci volevano diverse migliaia di euro e una “quota di mantenimento” per un alloggio popolare. E per chi non pagava volavano botte e violenze di vario genere, senza fare distinzioni. Anche se gli inquilini erano indigenti o avevano bambini piccoli. In un’intercettazione in cui a parlare è Emmanuel De Luca Bossa, si fa riferimento anche a 11mila euro per un alloggio al “Lotto 0” di Ponticelli, lo stesso dove abita la famiglia malavitosa. Ed è proprio da un episodio analogo risalente al settembre 2020, che è partita la seconda tranche delle indagini. La prima risale all’aprile 2016 e prende spunto da un sequestro di droga e dalle informazioni contenute in una sorta di “libro mastro”.