Ogni epopea ha bisogno di un mito fondante, di una leggenda da tramandare di bocca in bocca fino a trasformarla in storia. È una legge non scritta che non ammette deroghe. Soprattutto quando riguarda i potenti. L’incipit di questa vicenda viene scritto in un assolato pomeriggio dell’estate 1982, qualche mese dopo la vittoria dell’Italia al Mondiale spagnolo. Al centro della scena c’è un bambino di sette anni che cammina sul prato verde di Villar Perosa. Ha le brachette corte e la manina avvolta da quella di suo padre Umberto. “Vicino a chi ti vuoi sedere?” gli domanda l’uomo. Il bambino lo guarda e stira la bocca in un sorriso. “Accanto a Paolo Rossi, papà”. È in quel giorno che per Andrea Agnelli la Juventus smette di essere un semplice club di calcio. Diventa affare di cuore, questione intima.

D’altra parte quella scena ha i contorni brillanti della predizione, tanto che sembra quasi contenere il concetto di predestinazione. È vero, ma solo in parte. Perché qualche anno più tardi Andrea vivrà un piccolo contrappasso. Nel marzo del 1996 la Juventus è chiusa in ritiro. C’è da giocare il ritorno dei quarti di finale di Coppa Campioni. Contro il Real Madrid. E visto che al Bernabeu le meringhe si sono imposte per 1-0, Lippi vuole tenere la sua squadra lontano da occhi indiscreti. Andrea Agnelli si presenta al campo ma il custode del Combi si rifiuta di aprirgli. “L’allenamento è a porte chiuse, non lo sa?” domanda con tono diretto. “Ma io sono Andrea Agnelli”, risponde candidamente il ragazzo. Il guardiano lo scruta con aria disorientata e poi lo incalza: “Ma lei ne è sicuro?”. È un imprevisto che riassume piuttosto bene le peripezie familiari di quel ragazzo con lo sguardo serio. È figlio di Umberto e di Allegra Caracciolo, ossia di quello che è destinato a restare sempre “l’altro” ramo della famiglia. Quello meno “viveur”, quello senza orologio sul polsino, quello che non ostenta yacht e fuoriserie, quello che lavora nell’ombra. Una dinastia meno appariscente e più concreta. Qualità che difficilmente vengono apprezzate. Tanto dal grande pubblico quanto dalla famiglia stessa.

Chi ha visto crescere Andrea lo definisce “taciturno” e spigoloso. Ed è pronto a scommettere che il ragazzo stia covando dentro di sé uno spirito revanscista. Il suo destino sembra quello di restare confinato al ruolo di comparsa in un film dove chi gli sta intorno è sempre protagonista. È così anche al suo matrimonio, nell’agosto del 2005. I duecento invitati ascoltano Wagner e Morricone, ma fissano soprattutto John Elkann. E si ricorderanno di suo fratello Lapo. Il ragazzo, responsabile della Brand promotion della Fiat, indossa lo stesso tight come lo sposo. Ma lo ha reinventato con una camicia a righe azzurre, una cravatta con un faro e un paio di mocassini scamosciati viola. Andrea guarda i cugini e sembra venir risucchiato in quel verso di Signora di Lucio Dalla: “È un amico diventato nemico che mi ruba la voce”. La storia trova conferma un mese più tardi.

La Fiat sta vivendo un momento in equilibrio fra il difficile e il drammatico. Serve una manovra per riportare casa Agnelli sopra il 30% dell’azionariato Fiat. Solo che mentre tutta la famiglia spinge in quella direzione, Andrea è l’unico a pensarla diversamente. E lo dice chiaramente. Alla vigilia dell’operazione rilascia un’intervista a Il Foglio in cui dice: “Nelle aziende il ruolo delle famiglie tende ad esaurirsi naturalmente”. E ancora: “Fiat deve essere considerata un investimento bilanciato di Ifil non essendo importante il controllo”. Sono parole che fanno rumore. E che non piacciono a nessuno. Poco dopo i vertici Ifil, la finanziaria di famiglia, mettono le cose in chiaro. Andrea Agnelli “ha espresso solo un punto di vista personale”. E il suo ruolo nella Ifil è quello di stagista. È una coltellata. Perché vuole screditare il percorso di formazione del rampollo nato nel ceppo “sbagliato” della famiglia. Andrea invece ha studiato a Oxford (St. Clare’s International College) e Milano (Università Bocconi), ha avuto esperienze lavorative soprattutto all’estero: alla Iveco-Ford di Londra, poi alla Piaggio, quindi all’Auchan di Lille e alla Schroder Salomon Smith Barney di Londra. Nel 1999 c’è la Ferrari Idea di Lugano, e l’anno dopo a Parigi la Uni-Invest (Banque San Paolo). Dal 2001 al 2004 ha lavorato alla Philip Morris International di Losanna, sezione marketing e comunicazione. “Ho passato quattro anni in Philip Morris a occuparmi di comunicazione – ha spiegato a Paolo Madron – La mia idea era quella di restarci fino a diventare general manager: poi avrei deciso cosa fare. Invece la vita ha scelto per me”. In verità più che la vita ci ha pensato la scomparsa di suo padre Umberto. «Il suo consiglio era di restare lontano da Torino, anche perché era difficile essere inserito nello staff di un’azienda di cui sei azionista. Poi, quando è mancato, il senso di responsabilità verso mia madre e mia sorella mi hanno indotto a rientrare”. E allora ecco che il ragazzo è diventato consigliere di amministrazione di Fiat e Ifil (poi Exor), oltre che socio dell’accomandita di famiglia.

Il suo legame con la Juventus comincia a essere sempre più stretto. E non solo perché Andrea diventa presenza fissa allo stadio. Nel novembre 2005, pochi mesi prima del caso Calciopoli, spende parole zuccherose per la “Triade”. “Questa dirigenza è la migliore possibile in assoluto – dice – sia dal punto di vista sportivo, che da quello economico-finaziario. Sono vicini alla scadenza e quindi è normale che si parli tanto del loro futuro. Giraudo sa perfettamente che la proprietà e io in particolare lo stima come manager e come persona. La fiducia è totale in lui”. Andrea parla, ma non ha una carica nel club, parla da semplice tifoso. Ma la situazione è destinata a cambiare. Nella primavera del 2010 Andrea Agnelli e John Elkann si presentano a Vinovo. “Siamo venuti insieme per dimostrare l’unità della famiglia. Non c’è contrapposizione, la vediamo allo stesso modo”. Il 19 maggio prende in mano le redini di un club che ha appena concluso il campionato al settimo posto. È il ritorno di un Agnelli alla guida della Juventus dopo 48 anni, cioè dopo la presidenza del padre Umberto, terminata nel 1962.

Le prime scelte si rivelano un successo e un disastro. Contemporaneamente. Affida la ricostruzione a Beppe Marotta. Sogna in panchina Rafa Benitez, ma si deve accontentare di Gigi Delneri. La conferenza stampa di presentazione dura appena 18 minuti, una frugalità che porta i giornalisti a cucirgli addosso il nomignolo di “Figlioccio” di Giraudo. D’altra parte Andrea ostenta serietà. In un’intervista di qualche mese più tardi Dario Cresto-Dina gli domanda: “Lei appare riservato, quasi diffidente, affilato nelle parole. È un modo per proteggersi?”. Andrea sospira e risponde: “Non la smentisco, accetto la sua impressione. Sono nato e cresciuto a Torino, amo questa città per la sua riservatezza e il suo spirito di dedizione al lavoro. Ho avuto un certo tipo di educazione. La famiglia, l’ambiente, le esperienze trovano un posto loro nel carattere degli individui. Rimangono lì per sempre. Le battute le faccio quando vado a mangiare una pizza con gli amici”. I primi mesi sono un vortice. La Juventus acquista Bonucci, Aquilani e Quagliarella. Ma anche Martinez, Krasic e Rinaudo. Sono flop fisiologici per una società che per tornare grande dopo la retrocessione in Serie B ha solo una strada a disposizione: comprare, comprare e comprare ancora.

La prima annata è un disastro. La Juventus chiude al settimo posto. Di nuovo. La tanto attesa rivoluzione non è arrivata. Bisogna rovesciare tutto di nuovo. La scelta cade su Antonio Conte, che aveva impressionato con il Bari. Un vecchio uomo della Juve chiamato a ricostruire la Juve. È un progetto che in un primo momento sembra folle, ma si rivela addirittura visionario. I bianconeri iniziano a vincere. Ma con un piccolo dettaglio: non sono assolutamente la squadra più forte. Arrivano Pirlo, Vidal e Vucinic. Ma anche Estigarribia, Elia, Ziegler e Giaccherini. Eppure quella Juventus istituisce una dittatura assoluta. Nove scudetti, uno in fila all’altro. Tre con Conte, cinque con Allegri, uno con Sarri. Più qualche coppa nazionale e due finali di Champions League, ottenute con una squadra che non partiva certo favorita. Poi all’improvviso le cose si sono fatte nebulose, il progetto più confuso. L’uomo che in quell’intervista da neo presidente aveva detto che il futuro apparteneva ai giovani (“Punteremo sempre più sui nostri ragazzi. Io amo il calcio, tutto il calcio, soprattutto quello giocato dai bambini sui campi di periferia”). Ora inizia a sognare l’instant team. Gli acquisti si fanno milionari, gli stipendi diventano pesanti come il piombo. Prima Higuain, poi Ronaldo, De Ligt. Colpi pesanti che si sommano a operazioni svagate. Arthur scambiato con Pjanic in un affare da 82 milioni totali, Ramsey a parametro zero, Cancelo ceduto al City in cambio di Danilo, Pellegrini scambiato con la Roma con Spinazzola. Anche il progetto di squadra diventa incerto.

Sarri viene preso per il suo gioco e poi scaricato dopo aver vinto lo scudetto. Pirlo viene promosso in pochi giorni da niente ad allenatore dell’Under 23 a mister della prima squadra. Allegri, che era stato rottamato viene richiamato come salvatore della patria. Solo che il sogno di poter vincere la Champions con investimenti massicci ha prosciugato le casse societarie ma senza mettere in bacheca quel trofeo che è diventato un’ossessione. Serve un modo per implementare i ricavi. Andrea lo mette a punto in gran segreto. O quasi. Telefona ai presidenti dei club più blasonati del Vecchio Continente e espone loro l’idea di Superlega. È un sogno che gli dovrebbe garantire un successo da economista e da statista in un sol colpo. Ma si affloscia in meno di un pomeriggio. Quando il progetto viene annunciato i tifosi e l’Uefa si ribellano. I primi hanno paura di veder sparire l’aspetto proletario e sociale del calcio. L’organizzazione europea non vuole perdere soldi e potere. Obiettivi diversi che collimano in un fronte comune. I grandi club fanno marcia indietro in pochi minuti. Ceferin, che è il padrino della figlia di Andrea Agnelli e presidente dell’Uefa, urla al tradimento. “Agnelli è stato la delusione più grande – dice alla stampa – non ho mai visto una persona capace di mentire così tante volte, in maniera così persistente. Sabato mi ha detto che erano solo voci, poi ha spento il telefono. Non sapevamo di avere delle serpi in casa”. Quel fallimento politico preannuncia la fine di un’era. Solo che ogni matrimonio che finisce si protrae più del dovuto. Quello fra Andrea Agnelli e la Juventus si è sciolto ieri, nel peggior modo possibile, dopo un’inchiesta della Procura per falso in bilancio. Un paradosso. O forse no. Perché Andrea Agnelli è rimasto intrappolato in un ossimoro: l’uomo dei 9 scudetti di fila viene ricordato soprattutto per quelle due finali di Champions. Entrambe perse.

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