Come denunciato sulle pagine de ilfattoquotidiano.it, uno studio legale ha inviato per conto di alcuni politici lettere in cui si chiedeva a ciascuno dei destinatari un risarcimento di migliaia di euro per un commento pubblicato su un social almeno due anni fa e che nella lettera, contenente la citazione di una sentenza, veniva dichiarato lesivo della reputazione del suo assistito.

Alcune persone si sono rivolte a Renata Girardi e l’avv. Patrizia Bissi, di cui ho molta stima, che hanno consigliato loro di non pagare e di rivolgersi ad un legale di fiducia. Renata, che coordina la nostra Commissione Solidarietà sociale, ha coinvolto l’Osservatorio sulla legalità e sui diritti, che oggi narra la vicenda anche sul proprio sito web.

La descrizione dettagliata dei fatti è già presente negli ottimi articoli di Thomas Mackinson. Quello che vorrei sottolineare, a beneficio dei lettori, è l’aspetto delle procedure (cioè come dovrebbero svolgersi le cose in questi casi e quali garanzie la legge prevede per chi sia accusato di diffamazione, aggravata o meno) che deve mettere in guardia dal pagare e suggerire di rivolgersi ad un legale. Fermo restando che in rete è doveroso esprimere le proprie opinioni basandosi sulla realtà e in modo non offensivo.

La persona che si ritiene lesa nella reputazione può, è vero, inviare una lettera di diffida al presunto offensore, per esempio chiedendo di rimuovere il commento, rettificarlo e porgere delle scuse, paventando una querela in caso di inottemperanza, ma non ha il potere di stabilire se il commento stesso costituisca reato né può quantificare con certezza il danno e chiedere direttamente un risarcimento facendosi giustizia da sé. Infatti spetta al giudice stabilire se un commento costituisca diffamazione, eventualmente aggravata, e sempre al giudice compete verificare il danno e quantificare l’importo del risarcimento.

L’avvocato cui avrà fatto ricorso chi ha scritto il commento potrà evidenziare che il tempo trascorso dalla sua pubblicazione (nei casi di cui stiamo parlando anche di 3 anni) ha oramai superato il termine di 90 giorni che la legge dà alla persona offesa per presentare querela. E pertanto ciascun destinatario dei commenti deve provare in tribunale che all’epoca – quando era un parlamentare dotato di social media manager o almeno di uno staff che ben avrebbe potuto notare il commento incriminato – non sia venuto a conoscenza della pubblicazione e se ne sia invece avveduto solo due o tre anni dopo. Pure va escluso che il destinatario del commento fosse online durante la pubblicazione, perché l’azione commessa in presenza del destinatario dell’offesa è per la legge una ingiuria, che è depenalizzata e va sanzionata in altre forme.

Inoltre, anche in caso non fosse stato online, se il soggetto cui è rivolto è un personaggio pubblico, e ancor più se un rappresentante istituzionale, il commento potrebbe anche essere riconosciuto dal giudice come espressione del diritto di critica oppure come reazione ad una provocazione contenuta nel post. E va anche valutato se vi sia dolo, ovvero l’intenzione di nuocere. Infine, anche se vi fosse effettivamente una offesa, il tribunale può riconoscere le attenuanti generiche per comportamenti lesivi particolarmente lievi.

Perciò, chi abbia ricevuto una lettera del genere, legata a questa o altra vicenda, non deve pagare ma rivolgersi ad un legale di fiducia per sapere come comportarsi e come difendersi quando e se sarà querelato.

La prima difesa di chi abbia scritto un commento fuori dalle righe è comunque cancellare o rettificare il commento e scusarsi. Questo, oltre ad essere un comportamento doveroso in caso il commento fosse davvero offensivo, costituisce un’attenuante, ove il reato sia effettivamente riconosciuto in tribunale. Nel caso di cui stiamo parlando, invece, le lettere intimavano alle persone di non rimuovere o modificare il commento, peraltro non rimosso o oscurato nemmeno dal gestore del profilo usando l’apposita funzionalità del social. In questo modo, la condotta lesiva si perpetuava. Una richiesta peraltro insolita, perché contraria all’interesse del soggetto che ritenga lesa la sua reputazione a far cessare il danno lamentato.

Chi diffidi dal rimuovere o cambiare il commento che ritiene diffamatorio (o non lo elimini direttamente) potrebbe infatti essere paragonato ad un derubato che durante la rapina porga al ladro gli strumenti per aprire anche la cassaforte.

Come ho scritto, le indicazioni che ho dato qui non hanno il fine di scusare o minimizzare la portata dei commenti diffamatori in rete, che potrebbero produrre anche danni seri e vanno in ogni modo evitati. Sono invece finalizzate ad aiutare chi è caduto nella disperazione con conseguenze a volte significative dal punto di vista della salute psicofisica o dei rapporti familiari perché si è visto chiedere da personaggi di potere una cifra ingente, non di rado molto al di sopra delle proprie possibilità. Spesso, infatti, per la vergogna o per lasciarsi una simile vicenda alle spalle dopo l’avvenuto pagamento (o perché si era firmato un accordo di riservatezza), le persone coinvolte in questa storia non hanno chiesto aiuto a nessuno.

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