Recentemente sono stato invitato a parlare all’interno di un panel della Milano Digital Week e, insieme ad Alessio Pisa (Ceo di Instilla), David Puente (vicedirettore del sito Open) e Luca Zorloni (responsabile digitale di Wired), abbiamo provato a rispondere alla domanda “Algoritmi e informazione: vale il compromesso?”.

Leggendo i dati dell’ultimo Digital News Report/Reuters Institute è evidente che ormai la stragrande maggioranza della popolazione dice di informarsi attraverso i social media. Ma la semplice domanda “come ti informi: attraverso la radio, la tv, i giornali, i social media?” contiene un’affermazione non di poco conto, cioè cosa significa informarsi? Cosa prevede una dieta informativa media per dirsi “informato” sui fatti che mi circondano? Un po’ di tg, spippettare i titoli di Google news, qualche clic a notizie in cui mi imbatto su Facebook o Twitter, basta per dire che mi sto informando? Per noi che abbiamo superato gli -anta, informarsi voleva dire la mattina leggere almeno un quotidiano e durante il giorno navigare qualche sito on line; poi ascoltare con attenzione un giornale radio o un tg la sera.

C’è un altro dato dal report che mi ha fatto riflettere, quello che il 68% dei cittadini Usa pensa che i social media, in qualche modo, nascondano delle notizie che potrebbero essere importanti, dandone la colpa all’algoritmo, ovvio. Quindi informarsi sui social e dare la colpa ai social di nascondere delle notizie che pensiamo possano essere importanti denota, in ultima analisi, la diffusa poca consapevolezza su cos’è il giornalismo e cosa sono le notizie.

Non è il caso di te lettore che stai leggendo questo post su ilfattoquotidiano.it, che sei un lettore critico e informato, ma la poca percezione del valore delle “notizie” (di cui la gente ha sempre avuto la poca propensione a pagare) è oggi veramente ai più bassi livelli e si aggiunge ad una crescente “pessima reputazione nei giornalisti”.

C’è un lettore passivo che è apparso nell’era dei social media che in realtà “non si informa”, ma che è portato a credere di essere informato perché ogni tanto guarda il proprio newsfeed o risponde a una notifica sul proprio cellulare e vede qualche video di TikTok e Instagram. Questa è una triste parte della storia, la più grande, quella che raccoglie la più ampia fetta della popolazione. Crescono invece le forme di sottoscrizione a pagamento per news o altri contenuti informativi che arricchiscono la “dieta informativa” di quella che però resta un élite.

E allora le recenti notizie sullo smantellamento da parte di Facebook/Meta del suo Journalism project e la dismissione di quel rapporto di collaborazione con le testate giornalistiche è una pessima notizia sia per quel giornalismo di massa (basato su grandi pubblici che poi “rivendono” in qualche modo agli investitori pubblicitari tramite l’advertising), ma soprattutto è un altro brutto colpo al giornalismo indipendente che aveva trovato in Facebook/Meta una piattaforma per la distribuzione delle proprie notizie, economica e potente, capace potenzialmente di raggiungere una folla di lettori anche con una minima infrastruttura tecnologica e di marketing.

Penso al giornale azero Meydan Tv di base in Germania o alla testata indiana di giornalismo investigativo The Wire (al centro ultimamente di una disputa con Meta riguardo a una loro inchiesta sulla stessa Meta), ma anche ai tanti e numerosi media indipendenti apparsi sui social negli ultimi anni che, con molta fatica, riescono a fare un’informazione sana nonostante i regimi repressivi dove operano (e anche Paesi occidentali si dotano sempre di più di strumenti di polizia sui social media).

Meno news su Facebook però legittimità di propaganda alle personalità politiche (leggi la notizia pubblicata dalla Cnn su Trump). Quali effetti devastanti produrrà sull’opinione pubblica negli anni a venire questo scenario che si sta configurando?

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