Qualche giorno fa, su questo blog scrissi un post per festeggiare (eufemismo) il 125esimo compleanno della Juventus, squadra per cui faccio il tifo. Volevo semplicemente porre una domanda: è possibile tifare la Juve nonostante tutto? E cioè, per rimanere alla fredda cronaca, nonostante le recenti situazioni societarie, che hanno proiettato più di qualche ombra sulla dirigenza? La risposta era affermativa, ma condizionata da una serie di distinguo.
Facevo riferimento proprio alle ultime contestazioni della procura di Torino, che parlano di false comunicazioni al mercato, ostacolo alle autorità di vigilanza, aggiotaggio informatico e dichiarazione fraudolenta. Accuse contestate non solo ai manager, ma in parte pure ad Andrea Agnelli, esponente della famiglia che da un secolo governa la Juventus. Contestazioni che inevitabilmente andavano ad allungare una serie di momenti complessi, difficili da affrontare pure dal semplice tifoso, già provato dagli anni bui di calciopoli, che magari al lunedì vorrebbe vantarsi in ufficio del 3 a 0 alla Lazio e del ritorno in campo di Federico Chiesa. E invece è costretto a sorbirsi lezioni su plusvalenze false e plusvalenze vere da improvvisati economisti, a tinte spesso nere e azzurre (o rosse).
Quel post voleva porre una questione tra i tifosi della prima squadra italiana, ma – salvo qualche piccola eccezione – ha prodotto soprattutto una sequela d’insulti, arrivati sui social da presunti difensori del verbo bianconero, incapaci di andare oltre un titolo o evidentemente impossibilitati a comprendere un testo scritto. D’altra parte essendo il tifo probabilmente la cosa più vicina alla religione, intesa come condivisione acritica di un dogma, mi rendo conto che è molto complicato aprire una riflessione di questo tipo su temi calcistici.
Lo avevo già intuito nel 2017 quando i vertici della società erano stati travolti dal cosiddetto scandalo della ‘ndrangheta in curva. Anche lì non era una vicenda di addebiti giudiziari, ma di questioni sportive e morali, in un Paese che ha una storia funestata dalla Piovra, dai morti ammazzati e dagli assassini rimasti impuniti. Per questo motivo già in quel post parlavo delle dimissioni di Agnelli da presidente, in modo da mettere al riparo la società da ogni possibile ripercussione in termini d’immagine. Ovviamente, anche in quel caso, invece di discutere su una vicenda odiosa e delicata gli juventini ortodossi se la presero con lo specchio che quella vicenda odiosa e delicata si limitava a riflettere.
Volendo è un po’ lo stesso atteggiamento tenuto dai vertici societari fino a oggi: mai una marcia indietro, mai un esame di coscienza, mai non dico un’ammissione di colpa ma almeno l’elaborazione critica di errori, veri o presunti. Mai una scelta che mettesse al primo posto l’onorabilità di milioni di tifosi juventini. Mai una presa di posizione dettata dal cosiddetto “stile Juve“, cioè quella sorta di spirito guida che dovrebbe essere applicato nella gestione della società e di cui non si hanno notizie da svariati decenni.
A questo punto è utile fare una puntualizzazione: è ovvio che al figlio di Umberto vanno riconosciuti meriti oggettivi e storici. È Andrea Agnelli che ha riportato la Juve a vincere dopo l’inferno di Calciopoli; è Andrea Agnelli che ha costruito una società moderna con il centro sportivo, la seconda squadra e la selezione femminile; ed è sempre Andrea Agnelli che ha battuto ogni record coi nove scudetti e i 19 trofei in totale (ma ci resta quell’ossessione europea). Meriti che nessuno gli potrà mai togliere ma che adesso sono oscurati dalle dimissioni di lunedì sera. Un black out totale che ha terremotato, una volta di più, l’ambiente juventino, esponendolo a speculazioni di ogni tipo.
Per la seconda volta in 16 anni la Juventus deve fare i conti con una dirigenza azzerata in pieno scandalo giudiziario. Certo questa volta è diverso. Non ci sono – per il momento – contestazioni legate a cose di campo, che potrebbero portare addirittura alla retrocessione. Il futuro della società è tornato saldamente in mano a John Elkann, ma onestamente le prime nomine decise da Exor (professionisti completamente digiuni di cose di calcio) non sono esattamente un’iniezione di fiducia per il tifoso. In questo senso, era dal 2006 che gli juventini non venivano chiamati a un attestato di fedeltà così assoluta e quasi cieca. Detto in altre parole, più banali: è molto più difficile tifare Juve adesso rispetto agli anni di Conte e del primo Allegri, ma proprio per questo motivo è fondamentale farlo. In fondo è la scontatissima base di quella malattia chiamata tifo.
La domanda, però, è un’altra: quest’ennesima umiliazione di un’intera tifoseria non poteva forse essere evitata? Non poteva il figlio di Umberto organizzare la fine della sua epoca in modo meno controverso? Magari rendendosi conto per tempo che il progetto di rilancio inaugurato con l’arrivo di Cristiano Ronaldo si era ormai trasformato in un boomerang, soprattutto dopo il clamoroso flop – mediatico e diplomatico – della vicenda Superlega. Oppure ancora prima, lasciando ai tempi dello scandalo ‘ndrangheta, più o meno con le stesse motivazioni di oggi, cioè per “dare la possibilità ad una nuova formazione di ribaltare quella partita”.
Tutti i cicli finiscono e il suo sarebbe finito col record di scudetti vinti sul campo e una società rilanciata e inserita nel terzo millennio. Sarebbe finito in maniera naturale, con un atto da “stile Juve” secondo la definizione di Giampiero Boniperti, cioè “un modo di vivere, di comportarsi, di ragionare”. Invece, in queste ore, sembrano tornare d’attualità le righe scritte da Giorgio Bocca nei giorni di Calciopoli: “Mi è parso di ritornare a una storia nota, una storia piemontese e monarchica dove re onnipotenti e amati dagli umili per la loro onnipotenza, si circondano di corti tanto brave a gestire il potere e i privilegi quanto ipocrite nel celebrare virtù che non hanno. Uno stile signorile e corretto mentre si dilaniano per la spartizione del bottino: lo stile Savoia o lo stile Juventus”.