Gli attentati di mercoledì scorso a Gerusalemme, che hanno ucciso un ebreo di 50 anni immigrato dall’Etiopia e uno studente canadese di 16 anni di un collegio rabbinico e fatto una trentina di feriti, riportano in Israele l’incubo del terrorismo e vengono letti come un avvertimento al nuovo (ed ennesimo) governo guidato dal leader del Likud Benjamin Netanyahu, vincitore delle elezioni del 1o novembre.

I due attacchi, nei pressi di stazioni dell’autobus, sono anche avvenuti, forse inconsapevolmente, nell’imminenza del decimo anniversario del voto con cui l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 2012, decretò a larga maggioranza (138 voti a favore, 9 contro e 41 astensioni) l’ammissione della Palestina come Stato osservatore. In realtà, come notava in quei giorni il professor Natalino Ronzitti su AffarInternazionali.it, era solo un upgrading, poiché la Palestina già godeva fin dal 1974 dello statuto di osservatore come movimento di liberazione nazionale, prima come Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e poi, dal 1988, con il nome di Palestina.

Al di là delle corrette puntualizzazioni di carattere giuridico, il voto di dieci anni fa, in pieno clima di fermento delle Primavere arabe in Medio Oriente, pareva avvicinare, o almeno andare verso, l’opzione dei due Stati per risolvere la crisi palestinese: una scelta più volte affermata, ma mai attuata. E invece dieci anni dopo quella soluzione non è affatto imminente, anche se gli Stati Uniti sono tornati a dirsene fautori dopo il distacco dalla formula dell’Amministrazione Trump. Anche di qui, dalla frustrazione di un popolo che non vede mai realizzate le proprie aspirazioni, rispettati i propri diritti e risolti i propri problemi, nascono sussulti di violenza e ingiustificabili gesti criminali. All’Angelus, domenica, Papa Francesco ha detto: “Seguo con preoccupazione l’aumento della violenza e degli scontri che da mesi avvengono nello Stato di Palestina e in quello di Israele” – si noti: Stato di Palestina. “Mercoledì, due vili attentati hanno ferito tante persone e ucciso un uomo e un un ragazzo a Gerusalemme… Lo stesso giorno, durante scontri a Nablus, è morto un ragazzo palestinese… La violenza uccide il futuro, spezzando la vita dei più giovani e indebolendo le speranze di pace”.

La polizia palestinese sta ancora cercando gli autori degli attentati, attuati – a suo dire – con ordigni “ad alta tecnologia”, zeppi di chiodi, viti e biglie, attivati da remoto con cellulari: un’azione “come non si vedeva dai tempi della Seconda Intifada”. Tecnologia e modalità sembrano escludere l’opera di un ‘lupo solitario’, ma induce piuttosto a pensare a gruppi ben organizzati ed addestrati. Secondo Massimo Lomonaco, corrispondente dell’Ansa da Israele, il “salto di qualità omicida” spiazza l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, ma viene invece salutato da Jihad islamica e Hamas come una risposta alla asserita “profanazione dei luoghi santi islamici” compiuta da due esponenti della ultradestra israeliana.

La soluzione dei due Stati è un’idea che, con varie varianti, risale a quasi un secolo fa, agli anni 30, e che dovrebbe risolvere, una volta per tutte, il conflitto israelo-palestinese: si tratta di creare due Stati separati, ciascuno sicuro all’interno delle proprie frontiere, uno ebraico e l’altro palestinese, rispettivamente Israele e la Palestina; gli arabi residenti in Cisgiordania e nella striscia di Gaza sarebbero cittadini palestinesi; gli arabi residenti in Israele potrebbero scegliere quale cittadinanza avere. Dettagli d’una soluzione del genere furono lungamente discussi nel 2007 ad Annapolis, capitale del Maryland.

Con il voto del 2012, spiegava Ronzitti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite non aveva fatto altro che sostituire Olp con Palestina, senza però riconoscere alla Palestina la qualità statuale, nonostante la Palestina, tramite il Consiglio nazionale palestinese, si fosse autoproclamata Stato fin dal 15 novembre 1988, con Gerusalemme capitale.
Il 23 settembre 2011 la Palestina aveva fatto domanda d’ammissione all’Onu. Perché sia accettata, occorre innanzitutto essere uno Stato – qualifica contestata dagli Stati Uniti, membro permanente con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza; e ci vuole poi il consenso dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza (CdS).

La domanda di ammissione venne subito bloccata, poiché nel Comitato sulle ammissioni del CdS solo sei Stati si espressero a favore. Miglior esito ebbe la domanda di ammissione all’Unesco, di cui la Palestina divenne membro il 23 novembre 2011, a larga maggioranza, sempre con l’opposizione degli Stati Uniti, che di conseguenza bloccarono il versamento di fondi all’agenzia dell’Onu con cui hanno costantemente avuto – e hanno – un rapporto controverso.

In sé, l’ammissione in qualità di Stato osservatore in seno all’Assemblea generale poteva non avere significative ricadute politiche, positive o negative, per la soluzione del conflitto israelo-palestinese; e in effetti non ne ha avute. Le speranze allora suscitate si sono rivelate illusorie, nonostante l’evolvere del contesto regionale – dalle Primavere arabe all’emergere del sedicente Stato islamico e alla sua sconfitta, dal riavvicinamento di Israele ad alcuni Paesi sunniti al persistere delle tensioni con l’Iran sciita – e di quello internazionale, con gli scossoni provocati dalla presidenza Trump. E adesso il ritorno al potere in Israele di Netanyahu, che della soluzione dei due Stati non è mai stato un fautore, non lascia presagire progressi a breve termine. Né il dossier pare prioritario per gli Usa o per l’Ue, tanto meno per altri grandi attori sulla scena mondiale.

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