Un violento nubifragio si è abbattuto su tutta la Campania producendo enormi colate detritiche. In principio sembrava che il disastro avesse colpito solo il paese di Casamicciola a Ischia. E il telegrafo di una caserma della guardia di finanza ha perciò avvertito con molto ritardo il governo: una catastrofe ben peggiore e ampia di quanto valutato sul momento. Solo in seguito il segretario comunale di Cetara ha confidato all’inviato del Corriere della Sera, tra i primi ad accorrere: “Il disastro è immane, spaventoso e terribile. Il fiume che attraversa il nostro sventurato paese, ingrossatosi nella notte sotto la furia dell’uragano, ha travolto tutte le case dalla parte alta del paese. Non possiamo precisare il numero delle vittime”.
Il piroscafo Tirreno ha trasportato a Cetara e Amalfi la fanteria del 63esimo reggimento inviata dal governo con giustificabile ritardo. E la gravità del disastro è stata confermata dalla visita delle autorità nei giorni successivi. Venticinque morti a Maiori, mentre se ne contano più di cento a Cetara, “una tomba che non renderà più i suoi morti” come scrive l’inviato del Corriere. Con la Croce Rossa e i militari sono arrivati via mare anche i fotografi de L’Illustrazione Italiana, per documentare l’alluvione.
Un giornalista locale è riuscito, tra mille difficoltà, a intrufolarsi nel codazzo dei maggiorenti (v. Figura 1). Scrive: “Il Capo dello Stato, con passo svelto, tra sua eccellenza Sacchi e il prefetto comincia a salire verso la parte alta del paese soffermandosi spessissimo a guardare i crepacci e le spaccature dei palazzi […]. Guarda con evidente impressione il terribile disastro e, poiché vede che l’altezza del materiale che ha seppellito Cetara raggiunge il secondo piano dei palazzi, rivolgendosi al Prefetto, gli domanda: “Ma è ghiaia questa?” E il prefetto: “Sì, tutta ghiaia, Eccellenza”. Al suo ritorno a Roma, scioccato dallo spettacolo di distruzione, il capo dello Stato ha messo subito a disposizione del Presidente del Consiglio dei ministri cinquantamila lire per gli aiuti e la ricostruzione”. E neppure la Chiesa si è tirata indietro: “Il Papa invia cinquemila lire a favore delle vittime”.
Tutto accadde in brevissimo tempo, nel mese di ottobre del 1910. Un indizio della severità dell’evento è dato dalle osservazioni nella stazione di Ischia, dove in 4 ore (tra le 6 e le 10 del 24 ottobre) si registrarono ben 250 millimetri di pioggia che produssero anche lì ingenti danni, non paragonabili però alla catastrofe di Cetara (v. Figura 2).
La perturbazione era iniziata alle ore 12 del giorno precedente e proseguita per tutta la notte, con le tipiche pulsazioni ritmiche dei nubifragi (v. Figura 3). Il capo di Stato era Vittorio Emanuele III, re d’Italia, accorso forse per la prima volta nei luoghi di un disastro, spinto forse dalla novità del reportage fotografico. Luigi Luzzatti era Presidente del Consiglio, Guelfo Civinini inviato del Corriere, il giornalista salernitano che scriveva su Il giornale della Provincia si chiamava Manlio Casaburi.
Ho raccontato la catastrofe di Cetara perché scrivere a caldo del recente disastro di Ischia è impossibile, se si vuole ragionare senza farneticare sulla questione idrogeologica che travaglia l’Italia dall’Unità in poi. Né sparare scempiaggini o rifugiarsi in stereotipi e trivialità o, addirittura, alimentare lo sciacallaggio, come ha scritto Libero domenica 27 novembre 2022, pagina 3. A caldo hanno già scritto e scriveranno i soliti trovatori, come vengono battezzati in un libro inutile come Bombe d’acqua: alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio (Marsilio, 2017), le figure onnipresenti all’indomani del disastro. È il loro momento per illustrare la soluzione finale della questione idrogeologica.
Il rispetto nei confronti delle vittime e del dolore dei loro cari reclama, invece, il silenzio. Secondo il Corriere della Sera di domenica 27 novembre 2022 (pagina 8), a Ischia sono piovuti 126 millimetri di pioggia in 6 ore. Quando si ragionerà, tra molto tempo, dovremo partire da qui. Qualcuno lo farà, ma l’attenzione mediatica e politica sarà volata altrove alimentando la sindrome di Cassandra nei tecnici e negli studiosi che cercheranno di mettere assieme i pezzi per capire come, dove, quando e perché si verificherà un altro disastro.
L’Italia è uno “sfasciume pendulo sul mare” secondo la ultracentenaria definizione di un emerito meridionalista, Giustino Fortunato. Un debito storico mai sanato da nessuna soluzione “definitiva”, da nessuna “messa in sicurezza”, da nessuna “legislazione di emergenza”. E il Mezzogiorno ha sempre onorato la cambiale più alta. A proposito dell’alluvione nella costiera amalfitana del 1954, Indro Montanelli aveva scritto sul Corriere che “[…] forse qui (nella bellezza naturale di questa costa) l’origine della tragedia. Gente che vive 360 su 365 giorni dell’anno in un simile scenario non è invogliata a prevedere i disastri; e, quando il disastro arriva, ne è colta fatalmente alla sprovvista […]”. L’Italia si è mossa spesso sulla falsariga di questo stereotipo alimentato perfino da uno dei più grandi giornalisti italiani del ‘900. Invero, c’è chi vorrebbe continuare a vivere lì. E questo diritto va rispettato.