La partita contro gli Stati Uniti potrebbe regalare un risultato storico: la prima qualificazione agli ottavi di finale della Coppa del Mondo. Ma dietro ai calciatori ci sono anche le aspettative dei manifestanti, delle loro proteste dopo la morte di Masha Amini represse nel sangue
Un Paese in fiamme. E una nazionale in ostaggio. Del regime e del popolo in rivolta, delle paure e della rabbia, delle enormi aspettative altrui e del proprio piccolo ruolo. Nel Mondiale dell’Iran il pallone si intreccia alla politica e un torneo che potrebbe regalare un risultato storico, con la prima qualificazione agli ottavi di finale a portata di mano, diventa la trasposizione sul campo di calcio di ciò che accade in patria.
Quell’inno prima silenziato e poi cantato a denti stretti. Le esultanze trattenute o liberatorie. I fischi dagli spalti, le minacce di boicottaggio e persino di morte, occhi lucidi, dichiarazioni incompiute che valgono tanto eppure non bastano mai. Nella favola dell’Iran a Qatar 2022 non c’è nulla di consolatorio, forse perché questo popolo oggi non può essere pacificato dopo la morte di Mahsa Amini e la rivoluzione repressa nel sangue dal regime. Centinaia di morti, migliaia di arresti e due mesi di terrore pesano anche sulle spalle della nazionale rivelazione del torneo, che per ora non riesce a far esultare fino in fondo i suoi tifosi che soffrono.
Il calcio in Iran insieme alla lotta è lo sport nazionale, ha sempre avuto un ruolo anche sociale. Per fare un esempio, l’ex calciatore Ali Karimi, il “Maradona d’Asia” oggi lanciato in una carriera dirigenziale anti-sistema, è stato uno dei primi a prendere posizione sugli eventi recenti, tanto da venire considerato un nemico pubblico dal governo, latitante a tutti gli effetti. Il pallone con la richiesta di apertura degli stadi alle tifose esplosa proprio in concomitanza di un Mondiale (quello del 2018) e concessa quest’estate, ha fatto da apripista alla battaglia per i diritti delle donne. E forse è proprio per questo che le imprese in Qatar non scaldano il cuore degli iraniani, anzi lo esasperano. Il Team Melli, nomignolo affettuoso che in persiano vuole dire semplicemente “squadra nazionale”, è sempre stato l’orgoglio del Paese, al di là dei risultati (mai alla seconda fase di un Mondiale, tre volte campione d’Asia ma l’ultima solo nel 1976). Le sue stelle sono delle icone, portate su un piedistallo. Perciò la caduta è stata più fragorosa.
Per capire dove nasce la conflittualità di un torneo che dovrebbe solo portare un po’ di serenità in un momento così difficile, bisogna tornare a quel famoso 16 settembre, quando in Iran Mahsa Amini muore dopo essere stata arrestata per non aver indossato correttamente il velo e si accende la miccia delle rivolte che continuano a mettere a ferro e fuoco il Paese. In quei giorni la nazionale prepara il Mondiale e ha appena ritrovato la guida di Carlos Queiroz, richiamato al posto di Dragan Skocic, il ct che aveva conquistato la qualificazione ma aveva perso il controllo dello spogliatoio. La squadra è in Austria, dove probabilmente le notizie delle prime proteste di massa arrivano filtrate. In patria invece sono iniziate le prime prese di posizione da parte di atleti e volti noti: come il già citato Ali Kiarimi, oppure Hossein Mahini, arrestato, o Ali Daei, il più famoso calciatore della storia iraniana, a cui viene revocato temporaneamente il passaporto, fino alla petizione alla Fifa per chiedere l’esclusione dell’Iran dai Mondiali. Tutti si aspettano un gesto anche dalla nazionale, che però non arriva. Anzi. Durante l’amichevole contro l’Uruguay il bomber Taremi segna ed esulta come nulla fosse: un gesto normale, in tempi in cui di normale non c’è nulla. È lì che il rapporto fra la nazionale e il suo Paese inizia a incrinarsi. Si romperà definitivamente il 14 novembre, quando la squadra viene ricevuta a palazzo dal presidente Raisi prima della partenza per il Qatar: una visita di rito con tanto di foto opportunity, probabilmente irrifiutabile, che per il Team Melli diventa il marchio dell’infamia.
Da allora è un susseguirsi di equivoci, gesti di cui tutti cercano di dare un’interpretazione ma nessuno può conoscere la vera natura, semplicemente perché i calciatori non parlano. Non possono farlo, forse nemmeno vogliono. In maniera esplicita lo ha fatto una sola volta Sardar Azmoun, il giocatore più rappresentativo della squadra, con un post su Instagram pubblicato e cancellato nel giro di poche ore: “Cacciatemi pure se sarà servito a salvare anche una sola ciocca di capelli. Lunga vita alle donne iraniane”. Dopo quelle parole la sua partecipazione è stata avvolta in un alone di mistero, ma era in dubbio solo per un infortunio. Una delle tante voci incontrollate che si sono diffuse nelle ultime settimane. Qualcuno ha puntato il dito su Taremi, parlando di una presunta lite con Azmoun. Qualcun altro su Amiri e Torabi, etichettati come fiancheggiatori del regime per non aver indossato il braccialetto nero in segno di lutto nell’ultima partita di campionato. Due potenziali titolari, rimasti in panchina contro l’Inghilterra, forse perché loro l’inno l’avrebbero cantato o solo per scelta tecnica, poi protagonisti nella vittoria contro il Galles, in cui lo spogliatoio è apparso tutto fuorché spaccato.
E così si arriva a Iran-Usa. Dove tutto era iniziato, nel 1998, con la prima storica vittoria in un Mondiale, e che oggi più che mai non può essere una semplice partita. I ragazzi del Team Melli la giocheranno tra l’incudine del regime e il martello dei ribelli. Le emozioni si mischiano e si confondono nell’incertezza: una vittoria contro gli Stati Uniti sarebbe il momento più alto della storia calcistica dell’Iran. Potrebbe anche essere strumentalizzata dal governo, come ha dimostrato quella visita istituzionale che ancora nessuno ha perdonato alla nazionale. O magari contribuire a pacificare il Paese e allentare la morsa del regime: dopo il successo col Galles, 700 dissidenti sono stati rilasciati dalle autorità, tra cui il calciatore Voria Ghafouri. Per la prima volta dopo settimane di terrore, il pallone forse ha restituito un sorriso agli iraniani. “Questo gol è un regalo per la mia gente in Iran, specialmente quelli che stanno soffrendo”, ha dichiarato Ramin Rezaeian, autore di una delle reti decisive. Parole che significano più di quello che dicono. “Noi siamo qui per fare quello che possiamo”. Quello che può fare per l’Iran questo Mondiale, che non è solo calcio.