Eva Green è tornata. Oltre a non essere mai esplosa realmente sul serio. Chiedersi perché, viste le potenzialità inespresse, è d’obbligo; ma non è tempo di dibattito di fronte al suggestivo thriller/horror Nocebo dell’irlandese Lorcan Finnegan che vede la Green protagonista non proprio assoluta ma prepotentemente in scena. Mamma belloccia (Green) che fa la stilista, paparone super manager del marketing (Mark Strong), figlioletta con scuola esclusiva, sono il terzetto idilliaco con elegante e moderna magione alto borghese londinese su tre piani. Tutto va bene fino a quando nell’atelier di vestiti chic per bambini, mamma Christine perde il controllo di sé e si ritrova a vivere un incubo ad occhi aperti con un cane nero cieco pieno di zecche che sbuca da dietro un muro e le si avvicina. L’incubo si sviluppa rapidissimo con il cane che all’improvviso si scrolla facendo mulinare per aria decine di zecche. Perché spieghiamo questo? Perché uno dei parassiti va a finire nel collo di Christine infilandosi sottopelle e nei successivi otto mesi la donna si ammalerà di strani tremori, vuoti di memoria, crisi isteriche, con tanto di maschera d’ossigeno notturna necessaria per respirare e quintali di inutili pillole per guarire.
L’insinuarsi sottopelle del parassita ha un doppio valore metaforico/simbolico che in Nocebo scopriremo sequenza dopo sequenza partendo dall’arrivo di Diana, una giovane tata filippina (Chai Fonacier) a casa di Christine. Nessuno si ricorda di averla chiamata, la tata, ma la fanciulla un po’ sinistra e molto sorridente si innesta in casa senza colpo ferire, al terzo piano, spianando un altarino magico macabro vicino al camino e diventando in mezza giornata idolo della buona cucina e dei rimedi di medicina tradizionali del suo luogo d’origine che possono aiutare a guarire Christine. Inutile dire che i rimedi della nonna sappiano di magia nera e che la generosità copra un desiderio di vendetta anticoloniale a anticlassista da fare davvero spavento. Assieme al fido sceneggiatore Garret Shanley, Finnegan, esperto di incubi ad occhi aperti occidentali (Without name, Vivarium) mette mano al soprannaturale spinto orientale (Diana è una paragnosta onto involontaria con poteri taumaturgici e iettature reali) per distruggere la comfort zone dei riccastri che fanno profitto sulla vita dei disperati negli slum dall’altra parte del mondo. Christine deperisce fisicamente minuto dopo minuto come la Mia Farrow di Rosemary’s Baby. Diana invece paffutella e vivace incarna il (presunto) male doppio antitetico (guarire/uccidere) che sacrifica se stessa per vendicare un lutto familiare strettissimo. La suspense dilatata e prolungata c’è tutta, gli effettacci purulenti pure (si veda le enormi zecche grandi quanto mezzo essere umano), oltre alla capacità di tratteggiare decise e precise atmosfere binarie (la miseria delle Filippine, lo sfarzo anglofono) senza mai far zoppicare il film. La Green, generosissima, si fa imbruttire, dimagrire, distruggere, perfino vomitando bile nera. Curiosa coproduzione irlandese-filippina.
ILLYRICVM
Guardi Illyricvm e capisci che il film storico, da sandali elmi e spadoni dell’impero romano, non è una questione di budget faraonici. Il film del regista croato Simon Bogojevic-Narath, Fuori Concorso al 40esimo Torino Film Festival, mette in scena una sorta di scaramuccia sanguinosa di confine verso Est, in quella che oggi potrebbe essere terra sloveno-croata, attorno al 37 a.c. Il pastore Volsus (Filip Krizan) dopo aver visto la sorella stuprata e pugnalata dal capo di una tribù barbara prima giura vendetta e poi viene pure cacciato dalla capanna di famiglia. Ramingo per gli altipiani dell’Illiria incontra una minuta legione romana che riscuote crediti per conto della Repubblica romana. Dapprima rischia di essere sgozzato dai legionari, poi viene inglobato da questi, infine finirà per difendere un avamposto romano fortificato dall’infido assalto di uno sparuto gruppo di truci pannonici. Permeato da una profonda cultura sacra, dall’adorazione di sconosciuti dei e dee, e soprattutto da un’incontrovertibile trasversale superstizione che si riversa nella ritualità magica di stregoni e pozioni, Illyricum è giocato sul verismo della rappresentazione e sulla fisicità dello scontro armato di lance, frecce, spade tra poco più di una trentina di attori.
La tripartizione del racconto tra una primissima parte modello antefatto tragico violento, una seconda in movimento tra altipiani e boschi, e una terza con i legionari protagonisti all’interno del fortino in legno, mostrano come l’armamentario registico di Bogojevic-Narath sia piuttosto completo e articolato: rende bene nei lenti ma potenti momenti di battaglia corpo a corpo, non indugia in spettacolarizzazioni melodrammatiche e divistici primi piani quando ad esempio i colpi di tosse che sentiamo nella colonna in marcia diventano una piccola epidemia, riesce a far respirare lo spazio vuoto, intonso, finanche misteriosamente raggelante della natura circostante in campi lunghi. Recitato in un latino tra lo stentato (i barbari e i centurioni) e il forbito (il delegato di Roma è un omosessuale con servo amante piuttosto prepotente e saputello), Illyricum ha anche una vena politica che si disvela in chiusura ricordando come poi gli ordinati romani, che prima dell’Impero da quelle parti non se la passavano per nulla bene da dittatorelli despoti quali erano, cancellarono poi all’epoca di Tiberio in maniera pressoché totale le radici di una cultura antica come quella illirica. Budget? Un milione e 400mila euro.