Calcio

La vera storia dell’omicidio di Andrés Escobar: perché quell’autogol ai Mondiali non c’entra nulla

Le tesi fantasiose che hanno trasformato una tragica fatalità in un omicidio su commissione legato a un autogol che aveva condannato la Colombia all’eliminazione da Usa 1994

IL LATO OSCURO DEI MONDIALI – PUNTATA 9 – Rimet sognava un torneo che avrebbe “unito le nazioni, avvicinando i popoli e rendendo il mondo un solo grande paese”. Non è andata proprio così. Da Francia 1938 a Qatar 2022, la Coppa del Mondo è anche una storia di guerre, omicidi, imbrogli e regimi dittatoriali. Puntata dopo puntata, vi raccontiamo le storie emblematiche degli intrecci tra calcio e potere

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Nella storia dei Mondiali non è esistito episodio più scioccante dell’omicidio di Andrés Escobar, in primo luogo logicamente per il fatto in sé, ma anche per le tesi fantasiose che hanno trasformato una tragica fatalità in un omicidio su commissione legato a un autogol che aveva condannato la Colombia all’eliminazione da Usa 1994. Il caso Escobar necessita di essere collocato all’interno di più cornici che delineano il contesto politico, sociale e anche sportivo della Colombia degli anni 90, e aiutano a capire perché un episodio di cronaca nera, uguale a quelli che di tanto in tanto accadono anche oggigiorno fuori da bar o discoteche un po’ ovunque, sia stato raccontato come un omicidio di calcio.

Le origini della storia possono essere fatte risalire, in maniera ovviamente fittizia, al 5 settembre 1993, quando la Colombia battè 5-0 l’Argentina al Monumental e la condannò ai play-off per qualificarsi ai Mondiali. La stampa colombiana parlò di parricidio, perché l’Argentina era sempre stato il riferimento principale del calcio dei cafeteros fin dai tempi di Pedernera, di Di Stefano e della lega pirata. Da Zubeldia a Bilardo, erano stati numerosi i tecnici argentini che avevano allenato in Colombia, paese che fino a quel momento si era sempre autoassegnato il ruolo di Calimero del calcio sudamericano. Quella vittoria così inaspettata, così ampia nel punteggio, ottenuta quando in palio c’era tutto, fece compiere alla Colombia lo scatto per diventare un paese calcisticamente importante. Fu la partita della consapevolezza, supportata dall’ottimo calcio praticato dalla nazionale del Pacho Maturana in quegli anni. Un mix che in tempo record ingigantì a dismisura l’orgoglio derivante da questa nuova consapevolezza portando a un incremento esagerato delle aspettative in vista della coppa del mondo.

Il giornalista Carlo Pizzigoni, autore del libro Locos por El Futbol, è stato a più riprese in Colombia, nelle redazioni dei giornali di Medellin e Bogotà, anche per ricostruire il caso Escobar. Ilfattoquotidiano.it lo ha contattato per capire cosa fosse la Colombia, e in particolare Medellin, all’epoca. “Nel dicembre del ’93 era morto il numero uno dei narcotrafficanti, Pablo Escobar. Controllava sostanzialmente il paese, e soprattutto pagava i politici per evitare che votassero la legge sull’estradizione, che lo avrebbe portato dritto negli Usa. Il governo americano, con la Cia, la Dea e il governo colombiano, elaborò un piano: raggruppò tutti i piccoli narcotrafficanti del paese e insieme fecero la guerra a Escobar. Non con l’esercito, ma attraverso un gruppo paramilitare chiamato Los Pepes (Perseguidos por Pablo Escobar). Uccisero Escobar, fu votata la legge sull’estradizione e uno dopo l’altro i narcos vennero arrestati. Ma nei mesi successivi alla morte di Pablo Escobar le grandi città colombiane diventarono un far west. Nessuno controllava più niente, tutti avevano armi e si moriva per un’inezia, tanto che nel paese si verificò il maggior numero di omicidi della sua storia. Medellin, dove non volava una mosca senza l’assenso di Escobar, era uno dei luoghi più pericolosi in assoluto”.

L’eliminazione alla fase a gironi del Mondiale fu un boomerang che aggiunse ulteriori tensioni a un paese già fuori controllo. Molti avevano perso dei soldi con le scommesse, non solo narcotrafficanti ma anche gruppi di criminali. Quando Andrés Escobar fu ucciso a colpi di pistola nel parcheggio della discoteca El Indio, divenne immediato associare il fatto all’ambiente delle scommesse. L’ipotesi fu la vendetta, per aver fatto perdere un mucchio di soldi alle persone sbagliate, e non un regolamento di conti, perché al difensore era sempre stato riconosciuto un profondo spessore morale rispetto ad altri compagni, tanto che dopo la sua morte Freddy Rincón dichiarò: “Fu uno shock immenso, amplificato dal fatto che la vittima era Andrés. Fosse capitato a Tino Asprilla o a Renè Higuita, che frequentavano certi ambienti poco raccomandabili, sarebbe stato ugualmente terribile, ma meno sconvolgente”.

“La sera dell’omicidio”, racconta Pizzigoni, “Escobar andò in discoteca perché voleva sfogarsi e avvicinò delle prepago, come in Colombia chiamano le prostitute. Ma queste ragazze erano legate a un piccolo gruppo di narcotrafficanti e la situazione degenerò, fino all’epilogo nel parcheggio della discoteca. Il discorso delle scommesse esisteva ma non c’entrava niente con l’omicidio, la cui base è la casualità. L’assassino – oltretutto uscito di prigione una decina di anni dopo il crimine commesso – era il sicario di un gruppo di narcos e con tutta probabilità nemmeno aveva riconosciuto il giocatore. Le indagini dimostrarono che Escobar non era stato seguito da nessuno, e che quello non era il modus operandi di un’esecuzione decisa dalla criminalità organizzata legata al giro delle scommesse. Certo, c’erano state delle minacce e ai giocatori era stato consigliato di non uscire al loro rientro in Colombia, ma solo perché in un paese dove ti sparavano a un semaforo per una precedenza non data c’era sempre il rischio di incappare in qualche balordo con la pistola in mano. Tutti gli eventi devono essere inseriti nel contesto ambientale dell’epoca”.

È stata proprio l’immagine pulita, iconica, di Escobar a indirizzare il racconto della tragedia verso ipotesi non supportate dai fatti. Non si volle far emergere che il giocatore andò in discoteca e cercò di flirtare con una ragazza che non era la sua compagna, perché in qualche modo dava fastidio al mito del personaggio. “Tutte le persone e i giornalisti con cui ho parlato durante le mie ricerche”, conclude Pizzigoni, “concordano che quella della tragica casualità è la sola ipotesi credibile, non ne esistono altre. Solo che tutti affermano: non si può dire che Escobar stava andando a donne perché ne intaccherebbe l’aura, si macchierebbe il mito. Un po’ come il discorso, ridicolo, di Riva che voleva andar via dal Cagliari, ma non si può dire perché sarebbe un’offesa alla Sardegna. In tre-quattro occasioni lui avrebbe voluto andarsene, ma questo non toglie nulla né al mito di Riva né al suo legame con la Sardegna”.