Taranto era diventata come un “girone dantesco” mentre l’Ilva era in mano alla famiglia Riva, durante la cui gestione si consumava “razzismo ambientale”. Per spiegare il supplizio della città a causa dell’acciaieria i giudici della Corte d’Assise, che hanno condannato 26 persone nel maxi-processo Ambiente svenduto, richiamano un concetto coniato al leader dei diritti civili afroamericani Benjamin Chavis. Gli imprenditori lombardi iniziarono come poco più che rutamat, recuperando i rottami da destinare ai siderurgici nel Bresciano, e finirono per diventare tra i più grandi produttori di acciaio al mondo con modalità “gestionali illegali”, a discapito del territorio. Insomma, a Taranto fu “razzismo ambientale”, quello che si manifesta quando “zone economicamente arretrate” vengono individuate “come luoghi dove realizzare grandi impianti industriali”, senza che “le istituzioni preposte ai controlli” esercitino “efficacemente le proprie prerogative”. E “senza alcuna considerazione” per la popolazione “costretta a vivere in un ambiente gravemente compromesso” ed “esposta a maggiori rischi per la salute”. In altri termini, tra il 1995 e il 2012, l’impianto era un “deposito di esplosivi gestito dai nostri imputati come fochisti”. La ricostruzione dei giudici nel corso delle oltre 3.700 pagine con le quali hanno spiegato le pene inflitte in primo grado a Nicola e Fabio Riva – oltre ai dirigenti dell’acciaieria e a pezzi delle istituzioni e delle autorità che dovevano vigilare – è una spaccato di oltre vent’anni di degenerazione del laissez faire, di quel “non disturbare” chi produce tornato prepotentemente di moda in queste settimane.
“Capacità di influenzare le istituzioni” – Sopra lo stabilimento di Taranto c’era una cappa, non solo di inquinanti: “La capacità di influenzare le istituzioni da parte dell’Ilva, facendo leva sul potere economico e contrattuale della grande impresa, ha reso per lungo tempo molto difficile l’accertamento dei crimini che si andavano nel corso del tempo perpetrando”, cristallizza la Corte d’Assise in uno dei quindici capitoli delle motivazioni. Seppur in passato ci fossero già stati processi in grado di restituire un “preoccupante spaccato” della grave situazione ambientale nel Tarantino, solo durante il dibattimento di Ambiente Svenduto “per la prima volta” è emersa “una visione unitaria della gestione illecita” da parte dei Riva, dei vertici aziendali e dei responsabili delle aree di produzione: “Il bilancio è agghiacciante”. Una cappa, appunto, sintetizzata così: “Di Taranto, sede dell’impianto di sinterizzazione più grande di Europa, non si sa praticamente niente, fino a date recenti”. Ad avviso dei giudici, che hanno ripercorso episodio per episodio le decine di contestazioni agli imputati, dentro il perimetro dell’Ilva si consumava una “sistematica violazione dei diritti dei lavoratori”, c’era “incuranza verso le norme in materia di sicurezza“, tra un “numero elevatissimo” di casi di malattie professionali e infortuni, e allo stesso tempo veniva portata avanti una “costante opera di tacitazione di ogni voce discorde”, compresa quella dei sindacati.
Il diktat: “Perseguire il profitto a ogni costo” – All’esterno, invece, ecco la “violazione delle norme ambientali” attraverso la “sistematica alterazione e falsificazione dei dati” delle emissioni, oltre al “condizionamento, spinto sino alla corruzione, dei soggetti pubblici deputati ai controlli, delle istituzioni e della stampa”. E nel frattempo i Riva avrebbero “sottratto” l’Ilva agli “impegni assunti” per migliorare le prestazioni ambientali dell’acciaieria: ci sarebbero riusciti anche attraverso la “mistificazione della natura degli interventi” sugli impianti, in realtà pensati in chiave produttiva. Il tutto nella consapevolezza degli “effetti” sull’ambiente e sulla salute di lavoratori e cittadini. Il diktat era quello di “perseguire il profitto e la produzione a ogni costo”. Anche al costo di “qualche caso di tumore in più”, come disse Fabio Riva in un’intercettazione che, ad avviso dei giudici, “riassume meglio di ogni altro elemento di prova” la “volontarietà” delle condotte e la “chiara consapevolezza” di cosa provocasse l’inquinamento. E lo sguardo di chi doveva controllare dov’era? Di cosa si occupavano le autorità?
“Intimidazione, corruzione e collusione” – Le indagini condotte da Noe e Guardia di finanza, mettono nero su bianco i giudici, hanno fatto emergere “inequivocabilmente la rete di collusioni intessuta” da Ilva che coinvolgeva “funzionari regionali e statali di alto livello, con i quali è preventivamente concertata la strategia ‘politica’ in senso lato dell’impresa”, grazie a “professionisti del tutto asserviti alle sue esigenze”. Così in una “sostanziale impunità” si arrivò al “sacrificio” non solo della legalità ma anche di “fondamentali beni costituzionali” in una “costante illecita opera di minimizzazione dell’impatto inquinante” da parte dei vertici dell’azienda “con la connivenza a tutti i livelli delle istituzioni pubbliche e private”. Un calvario di cattive opere e omissioni che i giudici mettono in fila in una sorta di rosario: c’era il “condizionamento dei controlli”, ci fu il ”pilotaggio” della intera vicenda legata all’ottenimento dell’Aia nel 2011, le analisi interne venivano “falsificate”, c’era “l’intimidazione” di chi era disposto a parlare e degli “organi di controllo”, ci furono episodi di “collusione” e “corruzione” dei consulenti tecnici ingaggiati dalla procura.
Un “girone dantesco”: Taranto come Minimata – E poi “l’ammorbidimento” di stampa e mass-media operata dal factotum dei Riva, Girolamo Archinà, oltre ai tentativi di “avvicinamento” dei massimi esponenti degli enti locali, e perfino della Chiesa, che “in teoria sarebbero stati portatori di interessi collettivi di segno opposto”, rimarca la Corte d’Assise di Taranto. In questa suburra, qualche schiena dritta era rimasta: “Solo la voce delle associazioni ambientaliste, solo la voce dei pochi lavoratori e sindacalisti che hanno sfidato il demansionamento o addirittura il licenziamento, solo la voce degli uomini degli organi di controllo, hanno infine consentito l’emersione in tutta la sua gravità di un fenomeno tanto evidente quanto a lungo sottaciuto”. A partire dal “primo vero impulso” per le indagini, quelle analisi su un campione di formaggio prelevato, su iniziativa del responsabile di Peacelink Alessandro Marescotti, dalla masseria Laera. Scoppiò così il caso della diossina a Taranto e da quel momento si iniziò a scavare, pezzo dopo pezzo, nella densa poltiglia di malaffare e postriboli delle proprie funzioni che aveva permesso ai Riva, stando alla sentenza, di fare affari senza rispettare le regole. Mentre le sostanze nocive e inquinanti si “distribuivano a raggiera” dall’Ilva verso i quartieri Tamburi e Statte e quindi sulla intera Taranto, trasformandola in un “vero e proprio girone dantesco” o una “novella” Minimata.