La procura aveva chiesto vent'anni. Secondo i pm e il giudice era lui - dopo l’avvio del processo Aemilia - a mandare avanti gli affari milionari della cosca di 'ndrangheta: l'indagine ha svelato che otto società in mano ai mafiosi erano in grado di sfornare, tra il 2018 e il 2021, fatture per operazioni inesistenti al ritmo di 10.840 euro al giorno di media. Condannati anche altri due fratelli Sarcone già in carcere, Nicolino (otto anni) e Gianluigi (tre anni e otto mesi)
Giuseppe Grande Sarcone è il più vecchio dei quattro fratelli che comandavano a Reggio Emilia, arrestati via via grazie alle indagini della Direzione Antimafia di Bologna. Era l’ultimo rimasto in libertà, dopo che le condanne negli altri processi hanno costretto dietro le sbarre Nicolino, Gianluigi e Carmine. Mercoledì 30 novembre è stato condannato a 18 anni di carcere con il rito abbreviato, al termine del primo grado del processo “Perseverance”: la procura ne aveva chiesti venti. Secondo i pm e il giudice era lui – dopo l’avvio del processo Aemilia – a mandare avanti gli affari della cosca di ‘ndrangheta. Affari milionari, perché l’inchiesta svela che otto società in mano ai mafiosi erano in grado di sfornare, tra il 2018 e il 2021, fatture per operazioni inesistenti al ritmo di 10.840 euro al giorno di media, domeniche comprese, a beneficio di 372 società del territorio con le quali si realizzava il patto diabolico del guadagnare di più e spendere meno. Riversando i danni sullo Stato, sul libero mercato, sui diritti del lavoro. “L’illecito profitto”, dicono gli atti del processo, “consisteva, per la società beneficiaria, nell’ammontare dell’Iva a credito e, per gli imputati, nella percentuale di guadagno quantificabile in circa il 6/7% dell’importo della fattura finale”. Percentuale che saliva fino al 10% sulla base di una non meglio precisata ma assai chiara “Legge dei cutresi fatturisti” di cui parlano nelle intercettazioni telefoniche due dei condannati.
Perseverance ci racconta però che la ‘ndrangheta è sempre mafia e il suo operare sul mercato non dimentica di utilizzare anche il carico di violenza di cui è capace. Arrivando al limite di una possibile guerra con i potenti vicini/rivali della cosca Farao/Marincola originaria di Cirò (Crotone), per il controllo del territorio in Emilia-Romagna e in Toscana. Alcune intercettazioni di Giuseppe Grande Sarcone rendono bene il clima: “Adesso gli misuriamo la febbre… Perché in Toscana comandiamo noi. O si fanno da parte o gli buttiamo una bomba. Vengo con la pistola, col rischio che mi incarcerano, per non avere niente? Glieli tolgo anche dalle mutande i soldi. Glieli faccio uscire dal buco del c…”
In questa storia i Sarcone rappresentano un “tutt’uno”, dice il collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese: una famiglia compatta in cui anche Giuseppina, sorella gemella di Carmine, si rimbocca le maniche per mandare avanti gli affari illeciti e viene di conseguenza condannata a un anno e quattro mesi, con la sospensione condizionale della pena. Giuseppe Sarcone Grande stava alle spalle del fratello Nicolino prima che i processi lo portassero dietro le sbarre. Ma era già un personaggio eccelente nella guerra di mafia che insanguinò l’Emilia negli anni Novanta se è vero – come ha ricordato la sostituta procuratrice antimafia Beatrice Ronchi – che doveva essere ammazzato per ordine della cosca rivale dei Vasapollo/Ruggiero, anche se al suo posto, per un banale scambio di persona, morì il giovane nomade Oscar Truzzi.
Ora, al termine del primo grado di Perseverance, il gip Claudio Paris ha condannato 22 imputati. Tra loro anche altri due Grande Sarcone, Nicolino (otto anni) e Gianluigi (tre anni e otto mesi). Altre pene pesanti per Domenico Cordua (15 anni), Giuseppe Friyio (14 anni e quattro mesi), Salvatore Procopio (14 anni), Giuseppe Caso (13 anni e quattro mesi), Angelo Caforio (sei anni), Alberto Alboresi (otto anni) e Genoveffa Colucciello (otto anni). Gli ultimi due, marito e moglie di Modena, soprannominati “il gigante e la bambina”, si erano rivolti alla cosca reggiana per picchiare o fare uccidere tre anziani fratelli al fine di appropriarsi di una eredità contesa. Della donna che li accudiva, di nome Marta, due dei condannati, Cordua e Friyio, parlano così durante una telefonata: “C’è da picchiare una donna, è pacioccona. Una sessantina d’anni, con i capelli bianchi, brutta come Equitalia. Due pugni e la mandate in ospedale. O le buttate un po’ di acido sulla faccia, che dagli occhi non ci vede più”. La Squadra mobile di Reggio Emilia è intervenuta prima che i delitti venissero commessi.