Un commovente e profondo omaggio al cinema in pellicola e in sala, ma con una trametta sociale e razziale esile esile. L’aspetto claudicante di Empire of light, ultimo film scritto e diretto da Sam Mendes, Fuori Concorso al 40esimo Torino Film Festival, è letteralmente la sua cifra peculiare. Tanta e tale la magniloquenza visiva e poetica di un reale sfarzoso set in interni (il Dom Cinema di Worthing sulla Manica) e di larghi, ariosi marittimi esterni (questa volta parliamo del Dreamland, un’altra sala cinematografica, di Margate, nel Kent), tanto è sottile lo spessore dello sviluppo drammaturgico attorno ai personaggi di Hilary (Oliva Colman), caposala di mezza età, in cura psichiatrica con litio, amante triste dello sposato manager del cinema Empire, Mr. Ellis (Colin Firth), e il neoassunto strappabiglietti di origine caraibica Stephen (Michael Ward).
Siamo nell’Inghilterra del Sud tra il 1980 e il 1981, in mezzo a pomelli d’orati, scale e seggioline in velluto rosso, bobine sollevate a mano e vecchi proiettori con la croce di Malta dell’enorme sala Empire. Fuori a un passo c’è il mare, il molo, il profumo di salsedine. Dentro scorre l’odore antico di una quotidianità tra colleghi, la celluloide che si srotola e arrotola di continuo fotogramma dopo fotogramma, e il buio che si fa attraversare da un fascio di luce di nome cinema. Hilary appena uscita da una fase di schizofrenia acuta torna in servizio e torna anche a masturbare di nascosto nel suo ufficio Mr. Ellis, anche se l’arrivo del giovane Stephen, sempre con l’ipotesi accesa di iniziare la facoltà di architettura lontano da lì, scombussolerà la sua vita affettiva. I due provano attrazione l’uno per l’altra, finiscono pure in piccionaia dell’Empire a fare l’amore (luogo ulteriormente magico che scompare dal film come per magia), ma quella strana coppia, lei signora matta e lui ragazzino di colore, non sembra proprio andare a genio agli skinheads che invaderanno con violenza il lungomare davanti all’Empire e agli inglesi tutti agli albori dell’evo Thatcher. Sarà l’anteprima regionale esclusiva di Momenti di gloria al cospetto della cittadina tutta (letteralmente invisibile nella narrazione generale) a far deflagrare i rapporti fragili tra i protagonisti. Anche se poi Mendes ricuce lesto il conflitto amicale e sentimentale tra i protagonisti, Empire of light sembra prima di tutto un’opera che si dirige dritta nel filone della nostalgia per la visione sognante ed esclusiva in sala dei film.
Nonostante il coté di un montante razzismo verso Stephen, non prima dell’ottusa rigidità istituzionale verso la “malattia” di Hilary, Mendes friziona ampi spazi di memoria dello spettatore riconducendo la gioia di vivere di Stephen ma soprattutto la “rinascita” di Hilary grazie, finalmente, all’uso della sala cinematografica. È proprio quando Hilary, dopo una vita passata a lavorare in un cinema ma senza aver mai visto un film, entra in sala, si siede in solitaria e si guarda Oltre il giardino di Hal Ashby che agli spettatori over 40 scende una lacrimuccia. Un substrato extrafilmico che Mendes ha forse intuito perire sotto i colpi del fato nefasto di un futuro non più progressivo e dell’industria cinematografica che ha preso direzioni altre rispetto al mito del passato. Così con Empire of light omaggia nientemeno che i primi anni ottanta, forieri ancora di un cinema popolare in sala dalle mille meraviglie. “La vita è uno stato mentale”, declama la voce fuori campo del “presidente” in Oltre il giardino seguito da Hilary commossa nel buio della sala; mentre sullo schermo Peter Sellers/Chance il giardiniere attraversa a piedi un lago e intanto bucherella l’acqua attorno a lui con l’ombrello che sprofonda. La realizzazione di sé si raggiunge assecondando la propria natura, il sé autentico non l’ego. Lo sdoppiamento della lezione esistenziale sul grande schermo fittizio dell’Empire piove sui personaggi del film Empire of light. Peccato però che Hilary e Stephen non abbiano quella colla addosso per farci rimanere appiccicato l’assunto. Insomma, Mendes centra con maestria evocativa e struggente lo sforzo più duro e complicato: far annusare la magia del cinema; ma si sfarina nel compito più semplice: dare spessore ai personaggi e alle loro storie. Splendido il lavoro di contrasto esterno/interno del direttore della fotografia Roger Deakins (in questi giorni in mostra anche con tante foto di moli e spiagge inglesi nella mostra Byways a Bologna). Colman vagamente ripetitiva e di maniera. Ward già pronto per qualche scintillante e atletico episodio di Black Panther. Nelle sale italiane il 23 febbraio 2023.