Cinema

The fire within: a requiem for Katia and Maurice Krafft, Werner Herzog è rinato

Il film del regista tedesco è un altro dei Fuori Concorso davvero sublime di questo 40esimo Torino Film Festival

di Davide Turrini

Diciamoci la verità: non è che Werner Herzog dopo Grizzly man (2005) ne abbia azzeccata qualcuna, anzi. Sfidiamo chiunque a portare prove contrarie tra l’imbarazzante doppio concorso veneziano nel 2009 che annovera un remake assurdo de Il cattivo tenente e una roba sconcertante come Lo and Behold nel 2016. Ecco, la notizia invece è che Herzog è rinato in tutta la sua purezza adamantina di esploratore di vite al limite nella natura estrema. Il film s’intitola The fire within: a requiem for Katia and Maurice Krafft ed è un altro dei Fuori Concorso davvero sublime di questo 40esimo Torino Film Festival. Un modo per Herzog di tornare a bordo dei vulcani in eruzione per sfidare l’impossibilità di un’inquadratura, della ricerca di una “verità estatica”. Solo che qui non si tratta più di attendere l’eruzione prevista come nei trenta minuti de Le Soufriere (un cult del 1977) o di seguire il moderato vulcanologo Oppenheimer in Into the inferno (2016).

Per far andare a mille il regista bavarese non serve un soggetto tipo umile travet del terreno lavico: a Herzog serve qualche temerario che sfidi l’ignoto con la distratta consapevolezza che ogni volta può essere l’ultima. Nell’archivio video e foto di Katia e Maurice Krafft, due incredibili figure di folli esploratori di vulcani per oltre vent’anni, marito e moglie alsaziani (lei del borgo di Guebwiller, lui della città più grande li vicina che diede i natali a William Wyler, Mulhouse) che non hanno mai indietreggiato di fronte a lava, lapilli, lahar di fango, fin da quando intrapresero nel 1968 la scalata a Vulcano e poi Stromboli, Herzog ritrova proprio quella sorta di sfondamento del limite percettivo, quell’incandescenza della sconsideratezza umana che portò il suo Timothy Treadwell a dialogare con gli orsi per poi venire da loro sbranato. “Avrei fatto di tutto per poterli accompagnare”, spiega la voce fuori campo di Herzog in quell’inglese scandito e spigoloso da tedesco.

I Krafft vengono recuperati dal fondo, da quel giugno 1991alle pendici del monte Unzon, in Giappone dove piazzarono per l’ultima volta cavalletto per macchina da presa e per macchina fotografica senza calcolare (sempre che l’abbiano mai fatto) un flusso piroclastico di entità impensabile che di lì a qualche ora li avrebbe fatti affogare nel fango. Le immagini quindi, dell’ultimo giorno dei Krafft sono di un operatore tv giapponese mentre pare una sorta di found footage il lungo flashback che subito si srotola tra vulcani in eruzione nelle Hawaii, in Alaska, in Indonesia, ma soprattutto a valle del colombiano Nevado del Ruiz, oltre cinquemila metri d’altitudine, che nel 1986 eruttò travolgendo villaggi, uomini e animali per decine di chilometri facendo oltre 20mila vittime. I Krafft erano lì e documentarono un evento catastrofico letteralmente in mezzo alle colate laviche. Del resto per queste peripezie c’è anche il lato comico, in Herzog sempre presente in modalità contrappunto, con Katia e Maurice che provano delle tute ignifughe quasi fossero in un film di fantascienza di serie B. Eppure il magnetismo della magnificenza e del mistero proveniente dal centro della Terra attira a sé i due coniugi, come l’Herzog documentarista, facendoli danzare continuamente sull’orlo del precipizio. E non si tratta più di mancanza di vertigini, ma di una temeraria spensieratezza mista ad una euforica rassegnazione. “Ho visto in 23 anni talmente tanti irruzioni che non ho paura: se muoio domani nemmeno mi interessa”, chiosa Maurice di nuovo sul finale a ridosso dell’Unzon che sembra tacere con solo qualche piccolo sbuffo grigio. La sfida herzoghiana quindi si rinnova anche in questa profondità di campo sibillina che il vulcano può annullare in ogni istante, un’imprevedibilità naturale che sospende ancora una volta il giudizio sui suoi personaggi fuori dal mondo per far posto ad un’ammirazione incondizionata. Tanto il materiale d’archivio spettacolare tinto di un rosso giallo lavico rigonfio e colante come gelato che finisce in mezzo a The fire within, tributo sincero alla temerarietà dei personaggi come alla propria confermata visionarietà d’artista. Con una coda sul finale tutta da gustare, un ralenti birichino, Herzog purissimo, che instilla la certezza di un frammento rubato rivelatore sui Kraftt pronto a sorprenderci (oppure no?) ancor più di quei lahar che viaggiano a 80 chilometri l’ora.

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