Oggi, venerdì 2 dicembre, si tiene a Pistoia un Convegno internazionale sulla figura di Lucio Libertini, nel centenario della sua nascita. Il convegno, promosso dalla Fondazione Roberto Marini, si pone l’obiettivo di ricordare e ragionare sull’attualità di questo protagonista della storia della sinistra, scomparso a 71 anni nel 1993.
Coloro che hanno meno di 60 anni difficilmente si ricorderanno di Libertini e voglio quindi utilizzare le poche righe di questo mio blog per ricordarne brevemente la figura: non solo Libertini rappresenta uno spaccato della storia della sinistra dell’Italia, ma ne impersona in moltissimi passaggi una posizione eretica, da conoscere e valorizzare.
Lucio Libertini nasce nel giugno 1922, si laurea a Roma in scienze politiche e nel 1946 è membro (critico da sinistra) della Federazione giovanile del Psiup. L’esperienza politica di Libertini parte quindi dalla critica al moderatismo che a suo parere aveva caratterizzato la gestione della transizione dal fascismo alla repubblica. Si tratta di un tratto assai marcato che Libertini non abbandonerà nel corso della sua storia politica, che per il resto si colloca integralmente nel dopoguerra.
Quando nel gennaio 1947 avviene la scissione di Palazzo Barberini, Libertini (in compagnia di Livio Maitan) si schiera col Psli (Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, poi Psdi) da cui uscirà nella primavera 1952 dissentendo dalla scelta neocentrista di Saragat: schierato per un socialismo non socialdemocratico ma critico di stalinismo e settarismo, aderisce all’organizzazione – assai critica con il Pci e per certi versi con qualche tratto filojugoslava – promossa da Magnani e Cucchi.
Quando nel marzo 1957 l’Usi si scioglie, Libertini confluisce nel Psi, trovandosi di nuovo in minoranza perché contrario allo spostamento verso l’alleanza con la Dc sfociata nel 1963 nei governi di centro-sinistra.
Con Raniero Panzieri firma le “Tesi sul controllo operaio”, pubblicate su Mondo Operaio nel febbraio 1958 per rilanciare una strategia della trasformazione sociale fondata sull’autorganizzazione della classe operaia. Si tratta probabilmente del contributo teorico più importante di Libertini, che in collaborazione con Panzieri cerca di ridefinire il tema della rivoluzione in occidente al di fuori di quella “via italiana al socialismo” definita da Palmiro Togliatti.
Nel gennaio 1964 rompe con Nenni e Lombardi e partecipa alla fondazione del “risorto” Psiup che fino al ‘68 riesce ad intercettare nuovi fermenti sociali. Dopo la crisi del 1972 dello Psiup, Libertini, come la maggioranza del gruppo dirigente, entrò nel Pci.
Nel Pci Libertini assume vari ruoli di direzione politica e istituzionale e difende la svolta berlingueriana dopo il fallimento della solidarietà nazionale. Quando Occhetto dopo il crollo del Muro (novembre 1989) propone il superamento del Pci, Libertini si schiera con il fronte del “no” (mozione 2) e nel febbraio 1991 è tra i fondatori del Movimento per la Rifondazione Comunista.
Colpito da male incurabile, muore a Roma il 7 agosto 1993 a 71 anni.
Come si evince da questi brevi cenni biografici, Libertini ha cambiato nella sua vita numerosi partiti ma mantenendo integra la sua fedeltà di fondo a quella che lui stesso definisce “una corrente di pensiero che ha cercato di orientare socialisti e comunisti verso una strategia e un sistema di valori diversi dallo stalinismo e dalla socialdemocrazia. Sotto il manto di una adesione tanto spesso acritica e piatta alle posizioni dogmatiche vi era un ribollire di passioni e drammi. Questa storia è ancora tutta da scrivere”.
Mi pare che questo sia il punto di fondo che Libertini ci consegna oggi come problema aperto: la capacità di progettare e di realizzare una trasformazione sociale radicale che non cada nell’autoritarismo staliniano e nello stesso tempo superi la logica socialdemocratica dell’adattamento al capitalismo.
Attorno a questi temi si concentra il convegno di Pistoia, sia sul piano della ricostruzione storica che sul piano della innovazione politica.