di Claudia De Martino*
Si scrive spesso che la Palestina non è mai riuscita a diventare uno Stato perché gli Accordi di Oslo, che avrebbero dovuto portare a questo risultato, si sono bruscamente arrestati con l’arrivo al potere della destra di Benjamin Netanyahu e con la conseguente violenta reazione palestinese espressa dalla Seconda intifada. Tuttavia, la Palestina ha goduto fino ad oggi di una parvenza di autonomia amministrativa attraverso due entità indipendenti come l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e il governo de facto di Hamas nella Striscia di Gaza e solo oggi, all’indomani delle elezioni che hanno portato le estreme destre al potere e per fattori interni strutturali di crisi rischia di perdere anche la sua limitata autoamministrazione.
Molteplici fattori di rischi si accumulano simultaneamente nello scenario palestinese, fino a poterne provocare una prossima implosione. In primis, la Palestina affronta una grave crisi finanziaria, con una forte contrazione della crescita pro capite che ha portato l’indice di povertà a schizzare complessivamente al 27,5%. È utile ricordare come entrambe le entità istituzionali palestinesi siano sempre state dipendenti da donatori esterni e come il drastico calo di aiuti allo sviluppo, ai profughi e all’Anp (-50% dei salari dei 160.000 dipendenti And, -300.000 $ all’Unrwa), voluto dall’Amministrazione Trump, sia stato solo parzialmente reintegrato dal presidente Joe Biden.
Pure, il calo delle donazioni non riguarda affatto i soli Stati Uniti: l’Arabia Saudita, paese petrolifero tradizionalmente finanziatore della “causa palestinese”, ha ridotto il suo aiuto da 174 milioni di dollari a soli 32 nel 2020, mentre l’insieme dei paesi arabi è sceso dai 265 milioni del 2019 agli appena 20 del 2020. Le cause di questo crollo verticale sono attribuibili alla pandemia solo in parte, perché altrimenti gli aiuti avrebbero potuto essere reintegrati ai livelli precedenti una volta superata la crisi sanitaria, cosa che non è accaduta. È più probabile, invece, che il Covid-19 abbia offerto il pretesto legittimo per ridurre gli aiuti all’Anp in modo strutturale da parte di Paesi, come quelli del Golfo, che hanno interesse ad approfondire il processo di normalizzazione con Israele e a puntare su una progressiva archiviazione del conflitto.
Diversa la situazione di Hamas a Gaza sostenuto dal Qatar con 17 milioni di dollari al mese in accordo con Israele e, informalmente, dall’Iran per quanto riguarda la fornitura di armi: in quest’ultimo caso, gli aiuti ridottisi sono quelli indirizzati all’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unrwa), fortemente dipendente dalle sovvenzioni Usa, e forniti dall’ex alleato turco, attualmente impegnato in un riavvicinamento diplomatico a Gerusalemme, dal momento che Teheran e Doha continuano ad alimentare artificialmente l’economia di sussistenza della Striscia per motivi politici indipendenti ed estranei alla maggioranza dei Paesi arabi.
Oltre alla crisi economica, però, tra i maggiori fattori di rischio rientrano anche lo stallo politico ormai operante dal 2006, lo smacco delle elezioni convocate e poi revocate nel 2021 e l’incapacità di prospettare un cambio ai vertici tanto dell’Anp che dell’Olp, l’organizzazione-ombrello che dovrebbe ancora rappresentare gli interessi sia dei Palestinesi dei Territori Occupati che della diaspora, soprattutto di fronte all’incombente scomparsa dell’ormai ottantasettenne Presidente Abu Mazen.
Esiste ormai una salda maggioranza di palestinesi giovani (il 68% della popolazione) che vive in un vero limbo, non avendo conosciuto altro che un’autocrazia impermeabile ad ogni critica e che reprime attivamente il dissenso (si veda il caso dell’uccisione dell’attivista Nizar Banat nel giugno 2021) e consapevole che la divisione palestinese in blocchi contrapposti sia un fatto irreversibile (tutti i tentativi di riconciliazione ad oggi sono falliti), a cui inoltre non viene prospettata alcuna possibilità di evoluzione pacifica del conflitto: né come cittadini di uno Stato proprio, né di Israele (per annessione della Cisgiordania, che comunque escluderebbe le aree A e B a maggioranza palestinese).
Infine, la più grave minaccia che si staglia all’orizzonte è la decisione del neonato governo israeliano di appaltare l’Amministrazione Civile all’estrema Destra dei Sionisti Religiosi di Bezalel Smotrich trasferendola dal Ministero della difesa a guida Likud al Ministero delle Finanze assegnato a Smotrich, il quale ha già annunciato la propria intenzione di assumere una serie di provvedimenti irreversibili come la regolarizzazione di tutti gli insediamenti illegali, inclusi gli avamposti più sperduti di poche decine di persone collocati nel cuore della Cisgiordania.
La riapertura del registro catastale, congelato nel 1967, che richiederebbe a tutti i proprietari terrieri palestinesi la registrazione delle proprie terre previo possesso di titoli formali, pena la confisca dei terreni da parte dello Stato d’Israele, nonché alcune misure minori, come un’accelerazione degli ordini di demolizione delle abitazioni abusive, una scelta che – dopo l’incremento di ben otto volte del tasso di demolizioni tra il maggio 2019 e la fine del 2021- determinerebbe praticamente l’arresto di ogni attività edilizia palestinese nell’area C della Cisgiordania, corrispondente al suo 60%.
Se tutto questo non bastasse, il secondo esponente dei sionisti religiosi, il leader della piccola fazione interna Otzma Yehudit (“Orgoglio ebraico”) Itamar Ben Gvir, futuro Ministro della Pubblica sicurezza, ha avanzato la proposta di garantire l’immunità a tutti i soldati operanti nei territori occupati anche in caso di violazioni del codice militare e di ripristinare la pena di morte per i terroristi (palestinesi) sospesa dal 1988.
Sono, dunque, presenti tutti gli ingredienti per una nuova ondata di violenza che pure non ha alcuna chance di minare il controllo israeliano sui territori occupati: la “causa palestinese”, già sommersa nell’oblio generale, ora rischia di annegare nel sangue, fatalmente condotta in un vicolo cieco.
*Ricercatrice esperta di Medio Oriente