di Roberto Gennari
Sono a Dubai per lavoro da domenica. Ero partito con la ferma intenzione di non guardare neanche un minuto dei mondiali, un po’ perché effettivamente quello che è successo per la preparazione di questo torneo non può non smuovere le coscienze, con buona pace di chi deve fare l’alternativo a tutti i costi e dire che l’assegnazione al Qatar è avvenuta 12 anni fa e avevamo tutto il tempo per bla bla bla, un po’ perché la seconda assenza consecutiva degli azzurri dalla rassegna iridata è un qualcosa che mi crea un indefinito malessere interiore, un misto tra l’aver mangiato qualcosa a cui si è intolleranti e l’aver bevuto vino cattivo: una sensazione da cui insomma bisogna liberarsi al più presto.
La ferma intenzione, però, crolla miseramente già durante il volo, quando il mio vicino di posto, nel minischermo installato sullo schienale del seggiolino della fila davanti alla nostra, inizia a guardare Qatar-Ecuador, durante il volo, praticamente in diretta. Butto un occhio distratto, all’inizio, poi l’Ecuador segna subito, gol annullato. Finisco per guardare tutto il primo tempo, poi, vinto dalla stanchezza e dal fremdschämen per l’imbarazzante prestazione della nazionale ospite, decido che è giunto il momento di dormire un po’. Ho comunque già guardato 45 minuti in più di quanto avrei immaginato.
Atterro in aeroporto e al controllo immigrazione è tutto un parlare spagnolo: gente con le maglie dell’Argentina, gente con le maglie della Spagna, famiglie intere vestite con la divisa del Messico. All’aeroporto di Dubai è mezzanotte e il tizio con la maglia messicana mi racconta che è in arrivo da Abu Dhabi dove è stato per vedere il gran premio di Formula 1, il loro idolo nazionale Sergio Pérez è arrivato terzo dietro la Ferrari di Charles Leclerc, tra due giorni prenderanno il volo per andare a Doha a vedere Messico-Polonia, poi però passeranno il resto del tempo a Dubai, “che è molto più accogliente se sei straniero: in Qatar andiamo e torniamo in giornata, da qui ci sono 40 voli al giorno”, e io sento che sta per arrivare la frase che temevo più di ogni altra cosa, e infatti arriva: “è un peccato che non ci sia l’Italia”. Già, è un peccato, sportivamente parlando.
Questa cosa che è un peccato che non ci sia la nazionale azzurra è un ritornello che ritornerà sin dalla prima corsa in taxi, dall’aeroporto all’albergo: “Man, Italy should be given an automatic bid, everyone in the world wants to see Italy matches!” mi dice il primo tassista pakistano che incontro. L’Italia, e le altre nazionali blasonate, dovrebbero essere qualificate di diritto, mi dice, tutti nel mondo vogliono vedere le partite dell’Italia, e io rispondo che sì, ha senso, ma che la qualificazione a questo mondiale non ce la siamo meritata, quindi è giusto che ci sia qualcun altro.
Arrivo al primo evento di lavoro, una specie di cocktail molto informale in un golf club sotto una specie di veranda con tetto apribile, ovviamente con l’aria condizionata, e scopro che dentro ci sono 4 schermi che trasmettono Inghilterra-Iran. Parlando con un potenziale cliente durante gli inni nazionali, mi fa: “tu che sei italiano e di sicuro di calcio ne capisci, come finirà questa partita?”. E io rispondo secco “4-0” e lui “per l’Inghillterra, ovviamente?” Ovviamente. Continuo a parlare con un sacco di gente, arriva un tizio più o meno della mia età, lo conosco già, è inglese della City, i suoi stanno già vincendo 3-0, mi si avvicina e mi fa “So man, when’s Italy playing?”. Questa fa male ma me l’aspettavo. Rispondo che sono disposto a parlare di calcio solo con chi ha vinto almeno 4 coppe del mondo, quindi ripassa quando ne avrai vinte altre tre, grazie. La vittoria agli europei non gli è ancora andata giù, va bene così.
La partita è sul 5-1, me ne vado, ho un altro evento, da un’altra parte, dove continuano a dirmi dell’Italia, che è un peccato che non ci sia, ma come è stato possibile, e ci vorrebbe l’automatic bid, e l’aria condizionata dappertutto, perfino negli stadi (“e come faresti a sopravvivere senza? Qui ci sono più di 30 gradi anche adesso che è il periodo migliore dell’anno, per il clima”. Figuriamoci il peggiore, penso io). Sarà così per tutto il resto della mia permanenza, ormai ne sono certo. Nessuno ha nulla da ridire sulle violazioni ai diritti umani che sono state compiute, sono compiute, saranno compiute in Qatar. Solo una signora americana mi fa un’osservazione intelligente e sensata: “Negli ultimi due anni e mezzo abbiamo parlato solo di pandemia e di guerra: è bello sentire la gente tornare a parlare di sport, mi dà la sensazione di stare tornando alla normalità”. Già, ma a quale prezzo?
Rientro in albergo, nella hall c’è una trasmissione di approfondimento, sono collegati con Alex Del Piero. È difficile essere italiano ed essere qua, a mezz’ora di aereo dalle partite, vedendo spezzoni di calcio a destra e a manca, nei bar come negli uffici. Per fortuna, tra poche ore ho il volo che mi riporterà in Italia: il lavoro, la famiglia, i bambini, il freddo. Lì sì che riuscirò a tornare a non guardare le partite, per quel che vale.