Quasi tre mesi di proteste diffuse in tutto il Paese iniziano a fiaccare la resistenza della Repubblica Islamica dell’Iran. Tanto che sabato il procuratore generale iraniano, Mohammad Jafar Montazeri, ha fatto un annuncio storico: “La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l’ha creata”, ha detto mentre i i legislatori iraniani sono al lavoro per rivedere, entro due settimane, anche la legge sugli obblighi in materia di abbigliamento. Uno dei simboli della repressione del regime degli ayatollah sembra quindi pronto a cadere sotto i colpi delle manifestazioni di piazza scoppiate proprio dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne arrestata proprio dagli agenti della polizia morale per aver indossato male il velo e poi morta mentre era in custodia.
Il gruppo di revisione, spiega Montazeri, si è incontrato mercoledì con la commissione culturale del Parlamento “e porterà a dei risultati tra una o due settimane”. Qualsiasi siano i provvedimenti adottati e le tempistiche, si tratta di un momento storico per l’Iran post-rivoluzionario: con la polizia morale effettivamente abolita e la legge sugli obblighi in materia di abbigliamento rivista cade uno dei simboli della presa del potere khomeinista che aveva risposto col pugno duro a un laicismo dei costumi imposto dall’era Pahlavi che aveva marginalizzato la parte di popolazione più conservatrice.
Tutt’altro che secondaria anche la decisione di Montazeri di fare questo importante annuncio a Qom, città che rimane tra le più conservatrici del Paese e cuore della rivoluzione khomeinista del 1979. La scelta del regime, preoccupato per la tenuta della leadership degli ayatollah, cancella così 17 anni di polizia morale, la Gasht-e Ershad, e potrebbe addirittura portare all’abolizione dell’obbligo del velo che nel Paese è stato istituito nel 1983, appena quattro anni dopo la rivoluzione guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. Anche il governo conservatore di Ebrahim Raisi sabato aveva lasciato intendere che dei cambiamenti ci sarebbero stati: le basi repubblicane e islamiche dell’Iran sono costituzionalmente radicate, aveva dichiarato il presidente, “ma ci sono metodi di attuazione della Costituzione che possono essere flessibili“.
La svolta, però, non sarà indolore. Il nuovo governo è salito al potere sospinto proprio da quelle fasce più intransigenti e tradizionaliste del Paese, deluse dalle politiche più dialoganti, anche con l’estero, intraprese dal suo predecessore Hassan Rouhani, soprattutto dopo la decisione di Donald Trump di ritirarsi dall’accordo sul nucleare del 2015, e dalla crisi economica nel Paese. Oggi, Raisi dovrà rendere conto proprio ai suoi elettori. Anche se va ricordato che la questione del velo attraversa trasversalmente tutte le anime della popolazione e della politica iraniane: esistono frange cosiddette riformiste che, comunque, rimangono fortemente legate agli obblighi relativi al dress code delle donne e, allo stesso modo, sacche conservatrici che, invece, si mostrano molto più aperte a cambiamenti in senso liberale su questo tema.
Se anche il regime decidesse di abolire il velo, dopo aver fatto lo stesso con la polizia morale, non ci si deve certo aspettare una piena svolta democratica in un Paese che ha nel controllo ossessivo della popolazione e del dissenso uno dei suoi tratti distintivi, acuiti da manie di accerchiamento e da un parziale isolazionismo in campo internazionale. Mentre Montazeri annunciava gli allentamenti in tema di dress code, infatti, quattro persone sono state giustiziate per presunto spionaggio per conto di Israele, mentre sabato la casa della scalatrice Elnaz Rekabi, colpevole di aver gareggiato ai Campionati asiatici della Federazione internazionale di arrampicata sportiva a Seul senza velo, è stata demolita dalle ruspe di Teheran mentre lei rimane agli arresti domiciliari. Una liberalizzazione dei costumi non comporta necessariamente una svolta liberale: Egitto, Siria e altri Paesi dell’area insegnano.