Davanti alla mia abituale edicola dei giornali incontro un signore di mezz’età che non conosco. Nota che il mio sguardo è caduto sulla testata sportiva che ha appena acquistato e mi dice: “Ormai il calcio è in sala di rianimazione”. E tra me e me penso che il giocattolo sia ormai definitivamente rotto; una morte annunciata nella penisola arabica, da dove ci giunge un’overdose di immagini televisive a celebrazione apologetica degli orripilanti Campionati Mondiali Qatar 2022. Il cui primo becchino ha la faccia proterva, da opaco burocrate Cominform, di Gianni Infantino; l’avvocato svizzero con passaporto italiano che presiede dal 2016 la Fifa (supremo board del capitale pallonaro) e persegue l’obiettivo di azzerare negli stadi ogni presa di posizione che possa disturbare l’opprimente cultura repressiva del delirio patriarcale in auge nel Paese ospitante.
L’unica preoccupazione del sinedrio calcistico con sede a Zurigo, avido di petroldollari, che pretende di trasformare i giocatori in pupazzi privi di opinioni, tanto meno indignazioni, e l’evento quadriennale, immensa vetrina mondiale, in una lavanderia delle malefatte contro le proprie popolazioni – donne e lavoratori innanzitutto – attuate dalle anacronistiche dinastie al potere nella Penisola Arabica. Quella vetrina propagandistica che si sta rivelando lo specchio della paurosa involuzione del gioco con il maggior numero di appassionati a livello planetario e che ha affascinato generazioni, producendo passioni e relative mitologie.
L’incessante opera mitopoietica che sta diventando persino fastidiosa in bocca ai suoi celebranti più accreditati; come i commentatori alla ricerca del meraviglioso ad ogni costo tipo Federico Buffa e l’epigono Lele Adani. Quell’Adani che si è notabilizzato nel passaggio da opinionista ruspante e libero (seppure sempre a rischio di finire stritolato dalle digressioni, come Laocoonte dai serpenti) nel talk “Bobo TV” (dove ancora Antonio Cassano resiste a non bersela nel suo stile “pane e salame”) ai salottini del pensiero pensabile di mamma Rai; in cui ci propina luoghi comuni tra l’apologetico e il consolatorio celebrando il culto di Diego Armando Maradona (il sinistro magico figlio delle bidonville bonairensi, amico di pusher e di un imbolsito Fidel Castro, che definisce nientemeno “uno degli uomini più influenti del secolo”), ribadendo gerarchie demagogiche (Pelè secondo a Maradona, nonostante i due piedi magici e doti acrobatiche superiori, in quanto avrebbe celebrato i suoi trionfi solo in Brasile. Tesi ridicola per sminuire chi ha vinto tre Rimet in giro per il mondo: Svezia, Cile e Messico. E ne avrebbe vinto un’altra – inglese – se un bulgaro non lo avesse azzoppato).
Una sfrenata passione per i giocatori platensi, che lo fa sbroccare il 26 novembre, in trance da indemoniato al grido “tutti in piedi innanzi al miglior giocatore del mondo”, per un goletto da fuori area dell’argentino da esportazione Messi (il suo meglio lo ha dato nell’habitat protettivo catalano) con una certa complicità del portiere messicano in ritardo, l’anziano Francisco Ochoa (classe 1985). Lo stesso “migliore sinistro al mondo” che quattro giorni dopo si è fatto parare un rigore dal portiere polacco Wojciock Szczesky.
E qui si viene al punto: Leo Messi e l’altra superstar certificata dai palloni dorati Cristiano Ronaldo sono ormai dei sopravvissuti a se stessi e all’età avanzata, ridotti a fenomeni da baraccone per lo spettacolo che va avanti. Ma la messa in scena si rivela oltremodo modesta, senza l’apparizione – Mbappé a parte – di degni successori dei dominatori dello scorso decennio: l’inafferrabile star del Barcellona e il portoghese dalle doti balistiche come non se ne vedevano dal prematuro ritiro di Marco Van Basten, l’uno in villeggiatura al Paris Saint Germain e in procinto di finire nel gerontocomio del calcio Usa, l’altro alla ricerca affannosa dell’ultimo ingaggio. Una sterilità da spiegare, che probabilmente dipende dalla trasformazione di un gioco bellissimo in contenitore di spot pubblicitari; nella sua riduzione a meccanismo finanziario/borsistico che ha prosciugato tutto il resto.
Difatti la Germania ha già fatto i bagagli, l’Inghilterra è un fuoco di paglia, la catastrofe belga (che oltre all’ombra di Eden Hasard schierava il migliore centrocampista in circolazione: Kevin De Bryne), dell’Italia quattro volte campione del mondo sappiamo le miserie, il pur geniale coach spagnolo Luis Enrique che insiste sul falso nueve senza il Messi dei tempi belli (o David Villa). E il pentacampione Brasile? Intanto perde con il Camerun e si aggrappa a O’ Ney Neymar; un saltimbanco cascatore rispetto a O’Rey Pelè, e dove sono finiti i partner della “Perla Nera”: i Garrincha, i Santos, Didì e Zito più Vavà, poi i Jairziño, Gerson, Rivelino, Tostao, di cui non ci sono tracce tra gli attuali verde-oro? Tutti macinati dall’attuale tritacarne calcistico.
Insomma, la fine del duopolio egemone europeo-latino americano. Imploso. Si salva solo il Terzo Mondo (nonostante molti suoi giocatori militino nel vampiresco Barnum europeo). Che l’osceno Qatar si stia rivelando una sorta di Bandung del pallone (come la vecchia conferenza del 1955, che ricercava “una terza via” tra i due blocchi della Guerra Fredda)? Anche oggi fa freddo.