“Da qualche anno si respira in Italia un’aria che non mi piace: si respira orrore per il diverso, il più debole”. È una giornata del luglio 1988. Tano D’amico è seduto di fronte a Mario Accolti Gil. Sta rispondendo a una sua intervista che apparirà nei giorni seguenti su MondOperaio. Il giornalista e fotoreporter, nato 80 anni fa a Filicudi, sta spiegando all’intervistatore come mai ha scelto il popolo Rom come soggetto di alcuni suoi scatti: le immagini sono un efficace strumento di potere. Sono il punto di partenza dei pensieri, dei ricordi, della memoria. Possono essere utilizzate “per dominare gli uomini”, dice D’Amico. È con questa forte convinzione che, fin dagli anni Sessanta, il fotografo siciliano ha scelto di affrontare il potere ad armi pari: immagine per immagine, foto per foto, al di là della tirannia della parola. Trentaquattro anni dopo esce il suo nuovo libro: Orfani del vento. L’autunno degli zingari, edito da Mimesis.

Già dal titolo l’ultima opera di D’amico compie un’operazione politica: libera la parola “zingaro” dallo stigma dell’insulto. “Una natura comune lega indissolubilmente zingari e immagini”, scrive. Per questo ha deciso di raccontare la bellezza insita nei Rom, il “Popolo da guardare“. Portare alla luce il bello diventa necessario per delle persone che non hanno neanche il diritto di essere accettati nella società. I suoi ritratti suscitano emozioni, si mettono dalla parte del soggetto fotografato. Ma, d’altronde, la scelta di parteggiare per gli ultimi ha sempre caratterizzato la storia professionale e artistica di D’Amico.

Battaglie femminili, lotte politiche degli anni Sessanta, reportage sulle carceri e sui manicomi italiani: l’immagine, per il “fotografo militante“, può essere il simbolo del cambiamento. Una fotografia può far pensare. Orfani del vento è l’ultimo esempio della grande fiducia che D’Amico ripone nel suo strumento: “L’immagine vive per conto suo, è come un essere umano”, spiega il fotoreporter. “Non può essere ridotta a illustrazione della parola, a figurina. Così la si uccide”. Quando è viva permette a tutti di mettere in campo le proprie ragioni. Anche ai deboli, agli offesi, ai vinti: “Gli insoddisfatti, gli umiliati, i senza potere hanno sempre fatto ricorso all’immagine. Questo perché un regime può controllare completamente la parola in tutte le sue forme, ma non l’immagine”, scrive. La parola scritta non ha mai amato i Rom.

Un popolo che “non ha mai creduto nei ruoli”, scrive l’autore, cercando di descrivere la cultura zingara. Senza capi, senza condottieri: non necessari per chi “non ha mai fatto la guerra a un altro popolo”. Un’etnia che non ha una patria, perché non l’ha mai voluta. Sempre in cammino, perché “la terra non va posseduta”. Una cultura perseguitata da molti, ma che vive “senza mura, senza torri. Orizzontale come una tenda, come una strada, come una decisione che si prende tutti insieme”.

I ritratti degli zingari raccolti in Orfani del vento non raccontano gli avvenimenti. Si concentrano sulle sensazioni suscitate da ciò che accade e dal modo in cui gli occhi dei protagonisti lo descrivono. Nonostante sembrino scatti estremamente realistici, conservano qualcosa di misterioso. Un simbolismo che traspare dagli sguardi e che acquisisce ancora più credibilità grazie all’uso del bianco e nero. La scala di grigi scelta da Tano D’Amico, priva di contrasti eccessivi e giustamente tonata, è la cifra stilistica che lo ha contraddistinto in tutta la sua opera. “Il bianco e nero è una grande conquista – ha dichiarato il giornalista, spiegando la sua scelta -. Non è turbato dal colore”. Non ha bisogno di adeguamenti tecnici per essere supportato.

La composizione dimostra che si tratta di immagini molto cercate. Fotografia e verità hanno poco in comune, ma la menzogna che si crea è dolce e riesce a immaginare con delicatezza l’inconscio delle persone, le loro emozioni. “Non occorre sapere con precisione di cosa si tratti, di quale dolore o gioia si sia partecipi, quale emozione si ami, si ricordi”, spiega D’Amico. Bisogna solo accettare questi sentimenti, senza pregiudizi. “Perché gli zingari sono e vogliono essere zingari”. Un approccio rivoluzionario che spesso ha portato gli scatti del fotografo a ricevere accoglienze piuttosto tiepide da parte dei media nazionali. Le immagini che servono a illustrare il nuovo, il non narrato, trovano sempre dei nemici sulla loro strada. D’altronde, come D’Amico conveniva amaramente già nel 1988: “Non c’è più nel nostro Paese la solidarietà per i più deboli“.

Il libro verrà presentato dall’autore, da Graziano Graziani e da Francesca Adamo l’11 dicembre, alla Fiera nazionale della piccola e media editoria, Più libri più liberi, a Roma. L’appuntamento è alle 12.30 nella Sala Antares del centro congressi della capitale La Nuvola.

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