La possibilità era nell’aria: i ben informati sanno che gli ucraini da mesi stanno modificando – con tecnologia propria e assistenza degli alleati – droni e missili per spingerli verso obiettivi militari sempre più in profondità nel territorio russo. Ma la notizia delle due esplosioni in altrettanti aeroporti russi, una dei quali provocata da un drone kamikaze del quale nessuno, al momento, ha rivendicato l’utilizzo, anche se tutto lascia pensare a un’azione di Kiev, apre scenari nuovi nel conflitto ucraino. La cosa ha una valenza squisitamente strategica, nel senso che se raggiungere le basi dei bombardieri e i depositi delle armi e delle munizioni russe prima che arrivino al confine facilita il “disarmo” dei combattenti russi, a ben vedere riuscire a colpire molto addentro al territorio dell’invasore è un risultato politico enorme. Insomma, dice ai russi “i vostri capi non riescono più nemmeno a difendere il vostro territorio, presto nemmeno la vostra capitale, Mosca, sarà al sicuro”.
L’attacco ha colpito un’importante base operativa di bombardieri posta nella città di Engels, l’unica sede della Russia per il bombardiere strategico Tupolev Tu-160. La base ha una pista di 3.500 metri e circa dieci aree di parcheggio per i velivoli. Il bombardiere strategico in questione è un aeromobile supersonico ad ala variabile progettato dai sovietici: al momento è il più grande e pesante velivolo militare supersonico Mach 2+ mai costruito, il bombardiere più veloce in uso e l’aereo ad ala variabile più grande e pesante che abbia mai solcato i cieli. Risultano 27 Tu-160 operativi: insomma, con un singolo attacco l’Ucraina ha messo fuori gioco – dato che questi bestioni non si riparano in pochi giorni – quasi un decimo della flotta. Flotta che ben difficilmente resterà ospitata nella regione di Saratov nell’immediato futuro, a meno di non volerne fare un target agevole per i droni kamikaze ucraini. Ma questo trasloco è più facile a dirsi che a farsi, dato che in Russia non ci sono molti aeroporti militari con una pista così lunga, tranne due a uso commerciale nella zona europea e uno sul Pacifico, quest’ultimo perfettamente inutile allo scopo. Degli altri due, uno è a breve distanza da Mosca e quindi diventerà un bersaglio nel breve periodo, mentre l’altro è posto fra Samara e Kazan. Il paradosso è che, nel marzo 2012, il ministro degli esteri russo Serghej Lavrov lo aveva offerto alla Nato come hub per merci non letali. Resta la base di Astrakhan, usata anche in passato per attacchi contro l’Ucraina, ma non capace di ospitare tutta la flotta superstite di Engels.
A parte il destino del gigante dei cieli russo, è importante anche calcolare la distanza percorsa dal drone: ci sono almeno 550 chilometri fra le posizioni più avanzate degli ucraini nell’oblast di Kharkiv e la base di Engels, posta sul lato orientale del Volga, di fronte alla stessa Saratov. Per capirsi, la grande base di Smolensk, posta nell’ovest della Russia e “hub” per le truppe dirette dal nord-ovest verso l’Ucraina, si trova a meno di 400 chilometri, la base aerea di Dyagilevo, dove nelle ultime ore è misteriosamente esplosa un’autocisterna, entro i 500 chilometri, ma soprattutto il Cremlino di Mosca si trova a una distanza inferiore alla stessa Saratov. A fare i conti della serva, la metà delle forze e dell’economia russa adesso sono un potenziale bersaglio. Nelle prossime ore i russi lanceranno una rappresaglia contro obiettivi civili ucraini: lo faranno, però, sapendo che anche le centrali elettriche, le basi navali e i depositi di carburante di buona parte della Russia sono vulnerabili. Anzi, lo stesso edificio del Cremlino lo è.
L’attacco su Saratov, insomma, più ancora dell’affondamento del Moskva e del colpo inferto al Ponte Kerch, rappresenta un punto di svolta della guerra: Putin e il suo staff sanno che se fossero colpite le basi attorno alla capitale l’effetto politico potrebbe essere paragonabile al bombardamento di San Lorenzo a Roma, sei giorni prima della caduta del regime fascista, quando non una rivolta popolare ma il crollo della fiducia nel leader pose fine a un ventennio di dittatura.