Il cinema italiano dell’ultimo secolo non è stato sola prerogativa romana, almeno dal 1960 al 1983, dove visse anche anni tutti milanesi, magari poco noti al grosso pubblico, ma che, con un approccio meno aggressivo e totalizzante di quello di Cinecittà, sono stati illuminanti di una breve stagione nella quale il capoluogo lombardo è stato produttore, in senso lato, di film tutt’altro che sottovalutabili. “Non il cinema a Milano, ma il cinema di Milano”, specifica Davide Pulici, autore del recente L’Alternativa (Nocturno Libri, 2022), un saggio ricco di interviste ai protagonisti, zeppo di aneddoti e curiosità iper-documentate.
L’autore ci racconta come, in quei 23 anni, un manipolo di produttori, registi, attori e tecnici riuscì a realizzare un centinaio di opere, anche di raffinata qualità. Prendiamo, ad esempio, tre film meno noti di Ermanno Olmi quando non era ancora l’Olmi che vincerà la Palma d’Oro a Cannes ’78 con L’albero degli zoccoli (peraltro ambientato in Lombardia, nella bergamasca). Il primo dei tre film tutti milanesi di Olmi fu Un certo giorno girato nel ’67 e uscito in sala, proprio a Milano, al Rivoli, nel ’69. Prodotto dalla Cinema Spa, il cui 50% era dello stesso Olmi e l’altro di Italnoleggio e Istituto Luce, fu girato in una Milano nebbiosa (allora c’era ancora la nebbia a Milano…) ed è il compimento di una sorta di espiazione di un agiato borghese a seguito di un incidente d’auto in cui investe, uccidendolo, un poveraccio, invalido di guerra, che spinge un carrettino.
Il secondo film milanese di Olmi è Durante l’estate, girato nel ’70 e uscito in una saletta parrocchiale di Legnano solo nel ’76 (e poi in tv), prodotto (in coppia con la Rai) dal milanese Gaspare Palumbo, fra i più attivi della scena lombarda di quegl’anni. Racconta di una sorta di Idiota dostoevskijano in salsa meneghina che abita di fronte alla Torre Velasca e che, per tirare avanti, vende titoli nobiliari falsi e che finirà a San Vittore. Le musiche sono di un giovane Bruno Lauzi.
Infine, La circostanza, girato nel ’72, e completamente prodotto da Olmi, che monta (lui stesso) il film con un ritmo velocissimo quanto efficacissimo, decisamente innovativo per il suo cinema. Anche qui c’è una crisi familiare dettata da un’eccessiva attenzione al far ‘danè’ piuttosto che ad ‘ascoltare’, in una famiglia matriarcale con mamma notaio. In queste tre opere di Olmi gli attori, pur bravi, sono meteore che poi spariranno (o avranno ruoli, pochi e secondari, in altri film). Farne i nomi è dunque piuttosto inutile.
C’è poi Gianni Vernuccio che a Milano girò (e in parte produsse o co-produsse) una decina di film. Vernuccio, insieme con l’operatore Massimo Dallamano aveva filmato, nel ’45, la macabra esposizione di Mussolini in piazzale Loreto, come ricorda Alberto Pezzotta, che riuscì a intervistarlo prima della sua morte, nel 2007. Il film più noto di Vernuccio (e per me il migliore) resta Un amore, tratto dall’omonimo libro di Dino Buzzati (a cui piacque molto e che visitava spesso il set), interpretato da Agnès Spaak (la sorella di Catherine) e Rossano Brazzi. Ci fu poi Cesare Canevari nato a Milano e scomparso nel 2012, “un punto di riferimento per tutti coloro che facevano cinema nella zona milanese”, scrive Pulici. “Chi decideva di organizzare un film, in un modo o nell’altro, arrivava a lui. Cesare, figlio di un macellaio, aveva manifestato velleità artistiche precocemente”. Diresse (e in alcuni casi anche produsse) una decina di film. Temi (anche sexy ed erotici) assai lontani da quelli di Olmi: da Io Emmanuelle (’69) con una splendida Erika Blanc a La principessa nuda (’76) con la trans Ajita Wilson e Tina Aumont a L’ultima orgia del terzo Reich (’77), uscito a ridosso del Salò di Pasolini. Erano tempi in cui chi lavorava nel cinema faceva un po’ di tutto, tant’è che Canevari fu anche sceneggiatore e persino attore.
E ancora Vincenzo Rigo, regista, direttore della fotografia e montatore de Gli assassini sono nostri ospiti (’74) con una bravissima Margaret Lee che “guida per Milano dopo aver fregato la macchina a un travesta”, ricorda Pulici, laddove l’operatore “non inquadra il cielo, lo skyline o robe del genere. Sta perfettamente dentro il mondo che è intorno. E ne cattura il colore. Il colore di Milano”.
Protagonisti-personaggi di quel cinema milanese anche il direttore della fotografia Lamberto Caimi (lavorò con Olmi e poi con Lattuada); l’attore Sandro Pizzochero, sempre nella parte del bello; il produttore Alessandro Calosci, pure lui legato a Olmi e poi emigrato a Roma; Daniele Sangiorgi (“l’essenza della milanesità”) aiuto di Canevari, sceneggiatore e, all’occorrenza, anche attore di risulta; e tanti altri; per giungere a Luigi Cozzi, regista che ricorda, parlando della Cinecittà milanese detta Cinelandia “come sorgesse in mezzo al nulla” [… ] con “tre strutture separate, che erano: la Gamma Film di Roberto Gavioli, specializzata nel realizzare pubblicità a cartoni animati; un paio di capannoni che ospitavano dei teatri di posa aperti, lì in Lombardia, della De Paolis di Roma; una palazzina simile a un bunker in cemento armato, dove aveva sede la succursale meneghina del ben più grande stabilimento cinefonico romano denominato Fono Roma, completo di moviole, sale di registrazione e mix, in grado di provvedere al ciclo completo della sonorizzazione di un film”.
Cinelandia resistette fino al 1983 quando Silvio Berlusconi la acquisì e la trasformò in Mediaset, concludendo per sempre la breve epopea del cinema ‘selvaggio’ made in Milano.