Su Affari e finanza è stato pubblicato un articolo dal titolo Il salario della discordia. L’oggetto è il salario minimo e l’autore è Alessandro De Nicola. Un testo che spiega bene il ruolo del potere mediatico ed economico contro misure pro-lavoratori.

Chi è Alessandro De Nicola? Docente di Comparative Business Law e di diritto commerciale avanzato all’Università Bocconi. Editorialista de La Repubblica, La Stampa, L’Espresso, Il Foglio. E – chicca – presidente della “Adam Smith Society”. Smith, quello della mano invisibile del mercato. Tenetelo a mente.

Che dice De Nicola del salario minimo?

1. Introdurre un salario minimo legale provoca la diminuzione della domanda di lavoratori. “Qualcuno può immaginare un giovane cameriere 16enne di un bar di un piccolo centro dell’Italia meridionale che abbia come stipendio 1.584€ al mese?”. Per De Nicola evidentemente no. I salari bassi sono una sorta di stato di necessità, elemento “naturale”.

Un #salariominimo dignitoso imporrebbe invece agli imprenditori di non far più dumping salariale: per la competizione non avranno più l’arma dei salari bassi e dovranno – se vogliono rimanere sul mercato – puntare su innovazione, tecnologia. E investire nei settori ad alto valore aggiunto. Meno ristorazione, più industria. Che è quello che serve. Ovviamente accompagnato da una politica industriale di cui ogni tanto si parla su qualche giornale, ma di cui non c’è traccia.

2. Se il #salariominimo è indicizzato all’inflazione – cioè cresce automaticamente all’aumentare del costo della vita – “non si tiene conto del ciclo economico: in recessione la rigidità del costo del lavoro genera più facilmente perdite occupazionali”. E quindi teniamoci non solo i bassi salari, ma anche il massimo della flessibilità – al ribasso – possibile. Rigido è brutto, flessibile è bello. È il mantra che vige dagli anni ‘90 e seguendo il quale abbiamo portato più precarietà nella vita di milioni di uomini e donne. E più povertà.

3. Un #salariominimo “sfuma la differenza di compenso tra lavoratori più specializzati e meno specializzati”. In conseguenza c’è un disincentivo a specializzarsi o “una spirale al rialzo di tutti i salari”. Esatto: è proprio quello che servirebbe alla maggioranza del Paese. Un aumento generalizzato dei salari. Che nel 2022 sono stati tagliati del 4% dall’inflazione e dall’inazione del governo. E in politica anche “non fare” è una scelta ben precisa: in questo caso si è permessa la speculazione a danno dei salari. In realtà dal 1990 al 2020 i salari sono crollati del 2,9%. L’Italia in questo detiene un triste record: è l’unico Paese Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) col segno meno. Tutti gli altri hanno fatto registrare aumenti più o meno corposi. Colpa della scarsa produttività? È un fattore. Ma se i salari avessero seguito il trend della produttività non avremmo registrato un -2,9%, bensì un +21%: a tanto ammonta l’aumento della produttività nel periodo considerato.

4. Il #salariominimo non “cura la piaga dei lavoratori sfruttati: chi paga un immigrato irregolare 4 € l’ora […] non si farà commuovere da una legge”. Lavoratori sfruttati non sono solo i lavoratori a nero o quelli impiegati irregolarmente. Né tantomeno solo gli immigrati. Un’immagine un po’ stereotipata, che nasconde la realtà di un lavoro che nel suo complesso produce sfruttamento e povertà non solo per i migranti, ma anche per gli autoctoni. De Nicola, poi, non tiene in conto i salari da 4,6 € lordi l’ora come previsto da Ccnl firmati dalle principali organizzazioni imprenditoriali e sindacali: lì siccome c’è regolarità non c’è forse sfruttamento?

Chiaro comunque che il salario minimo da solo non basta. Serve rafforzare i controlli. Serve rafforzare l’Ispettorato nazionale del lavoro. A partire da 10.000 assunzioni. Che permetterebbero di aumentare l’occupazione, di tutelare salario, ma anche sicurezza e salute sui posti di lavoro e di recuperare allo Stato somme notevoli di evasione da parte delle imprese che delinquono.

5. Il salario minimo produce più occupazione o no? De Nicola qui si arrampica su una montagna di specchi. Cita uno studio di David Card, premio Nobel per l’Economia 2021, famoso proprio perché sostiene che un salario minimo si può accompagnare addirittura a un aumento dell’occupazione, ma solo per negarne in sostanza la validità e scrivere che “pare rimasta prevalente l’opinione di chi rileva effetti negativi”. “Pare” dice colui che subito dopo invoca scelte politiche, ma “sulla base di dati reali e non immaginari”.

6. L’articolo di De Nicola è una summa delle argomentazioni contro il salario minimo. Il presupposto è quello di Smith: qualunque intervento dello Stato è dannoso perché inficia il ruolo della “mano invisibile” del mercato. L’esito politico sono le parole di Meloni: “non disturbare” gli imprenditori. Che però, da soli, col loro “egoismo individuale” non producono benessere collettivo – come asseriva Smith – ma solo per se stessi: ricchezza per pochi, fame e sfruttamento per tanti. In Italia la piaga non sono solo lavoro nero e contratti pirata, ma un sistema che permette agli imprenditori di competere grazie ai salari da fame senza che la politica li “costringa” a investire e innovare.

Un Paese zeppo di lavoro povero è destinato a essere un Paese povero e di poveri. Un salario minimo di almeno 10 € l’ora permetterebbe non solo di migliorare concretamente la vita quotidiana di milioni di persone, ma anche di dare un indirizzo chiave di politica industriale: la competizione non si fa sulla pelle dei lavoratori, ma investendo capitali in innovazione, ricerca, tecnologia. Qualcuno un giorno dovrà pur dirlo che, invece, coi bassi salari si fa un favore al capitale parassitario che abbonda nel Belpaese.

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