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Simone Moro: “Non uso mai la parola “estremo” per raccontare storie di alpinismo. “Estremo” è alzarsi la mattina alle 5, convivere con la povertà o la malattia”

L'alpinista si prepara alla quinta spedizione su un Ottomila in invernale e si racconta al Corriere della Sera: "Con lucidità devo riconoscere che nei quattro tentativi precedenti, tre mesi per ognuno, quindi un anno della mia vita, sono riuscito ad arrivare solo a 6.200 metri, un tragitto che in genere compio in tre ore. Il Manaslu è considerato uno dei più facili in stagione propizia, questo spiega bene quanto cambino i giochi se si va d’inverno"

di F. Q.

Simone Moro e il quinto Ottomila invernale. Una prova che l’alpinista 55enne si prepara ad affrontare a 25 anni di distanza dalla spedizione sull’Annapurna dove i suoi compagni Anatolij Boukreev e Dimitri Sobolev persero la vita. Stavolta la metà è la vetta del Manaslu: “Con lucidità devo riconoscere che nei quattro tentativi precedenti, tre mesi per ognuno, quindi un anno della mia vita, sono riuscito ad arrivare solo a 6.200 metri, un tragitto che in genere compio in tre ore. Il Manaslu è considerato uno dei più facili in stagione propizia, questo spiega bene quanto cambino i giochi se si va d’inverno”, spiega l’alpinista al Corriere della Sera. Sono 22 le spedizioni fatte da Moro non in periodo proprizio, quindi nella stagione fredda: “Nell’ottobre 1992 feci la mia prima sull’Everest, tra l’altro non andò bene perché mi sentii male. Di questi trent’anni, ne ho passati 18 nei luoghi più alti, più remoti, più freddi, potenzialmente più ostili del Pianeta. E più di 5 a temperature tra i -10 e -70 gradi. Essere vivo oggi è il vero risultato di cui vado fiero. E in più avere tutte le dita delle mani e dei piedi”. Non manca la domanda su quale sia “il segreto” di imprese come questa, che ti portano a “cavalcioni sul tetto del mondo” a costo di essere diposti a rischiare tutto: “È innegabile che ho avuto una giusta dose di fortuna. Però, se io fossi stato uno che giocava tutto sul va e la spacca, adesso non sarei qui. Bisogna mettere in conto sin dall’inizio che ci saranno tante rinunce e fallimenti. Non a caso Messner dice che l’alpinismo d’alto livello è l’arte del sopravvivere, non quella di scalare”. Ispirazione? “Messner era il mio faro, conoscevo e leggevo tutto su di lui. All’età di quindici anni, visto che c’era chi metteva in dubbio la sua impresa sul Sass dla Crusc, gli mandai una lettera scrivendogli che io non avevo dubbi e mi offrivo per rifarla con lui. Mi rispose con una cartolina, ovviamente per dirmi che non era possibile. Dopo lo incontrai un paio di volte in occasione di conferenze, finché non siamo diventati grandi amici. Al suo ultimo matrimonio io e Peter Habeler eravamo gli unici alpinisti invitati”. Impossibile non tornare al 1997. Annapurna, scalata in invernale, Anatolij Boukreev e Dimitri Sobolev con lui: “Il giorno di Natale del 1997, sull’Annapurna. Siamo partiti in tre, sono tornato a casa solo io. Non avevo mai scalato un Ottomila d’inverno, la parete sud era inviolata, c’era tantissima neve, cadevano valanghe tutti i giorni. Non dico che fu un azzardo, ma una perseveranza stupida. Con l’esperienza che ho acquisito, oggi rinuncerei prima. Se fossimo tornati indietro avrei con me Anatolij Bukreev, il più grande amico che ho avuto e uno dei più grandi alpinisti della storia”. Uno dei sogni di Moro? “Mi piacerebbe condurre una trasmissione che raccontasse storie e luoghi, una versione attuale dei reportage di Bonatti. Non dovrebbe essere l’apoteosi del no limits o dell’estremo, una parola che io non uso mai“. Il motivo? “Perché è stata abusata. L’estremo è andare tutte le mattine alle 5 al lavoro, convivere con una malattia o con la povertà. Tutto ciò di pericoloso che noi alpinisti facciamo è per una nostra scelta”.

Simone Moro: “Non uso mai la parola “estremo” per raccontare storie di alpinismo. “Estremo” è alzarsi la mattina alle 5, convivere con la povertà o la malattia”
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