di Maria Chiara Cappelli
Chi è figlio di ricchi ha buone probabilità di mantenere il suo status economico-sociale, chi nasce povero ha scarsissime probabilità di migliorare e non è una gran scoperta. Chi è figlio di ricchi sarà presumibilmente inserito in una rete di conoscenze che lo favoriranno nella scelta del suo percorso formativo e nell’accesso a una situazione lavorativa appetibile. Chi è povero no.
In realtà però la scuola da noi è gratuita, l’università prevede forti sconti per chi è povero. Una così drammatica stagnazione è oltre l’atteso. Scuole gratis e università a prezzi accessibili dovrebbero costituire condizioni favorevoli per il miglioramento socio-economico. Eppure così non è. C’è evidentemente qualcosa che non funziona. Sicuramente le cause sono molte, articolate e complesse.
A scuola si dovrebbe andare per stare attenti in classe, imparare e studiare. In molti casi, soprattutto alle superiori, non è così. Le materie veramente importanti sono 3: l’italiano, che è la lingua madre e dovrebbe essere conosciuta in maniera approfondita, è correlata alla capacità di esprimersi e comunicare; poi c’è l’inglese perché è la lingua di scambio più utilizzata e infine la matematica. Purtroppo la matematica ha la caratteristica di avere argomenti correlati in maniera diretta: non si può capire l’argomento successivo se non si sono capiti quelli precedenti perché quelli precedenti sono un prerequisito.
Promuovere alla classe successiva chi non ha acquisito gli argomenti precedenti significa di fatto condannarlo a non capire più nulla di matematica. Ovviamente chi ha disponibilità economiche può sempre rivolgersi ad un insegnante privato ed è, secondo me, questa circostanza ad ostacolare l’ascesa socio-economica. Chi è povero ha molte difficoltà a tenere il passo anche perché si viene facilmente promossi alla classe successiva pur essendoci gravi lacune in una o più materie. D’altra parte chi se la sente di bocciare uno studente solo perché è insufficiente in matematica? Non lo si fa neanche al liceo scientifico.
Basterebbe, per limitare questo aspetto, liberarsi del concetto classe come lo intendiamo noi e rendere le classi fluide. Si può stare in una classe assieme ai propri coetanei durante l’ora di inglese e stare con ragazzi più piccoli durante l’ora di matematica. Ogni due mesi si fa un test, un test di quelli veri. Se si supera il test si passa al corso successivo, altrimenti si ripete il corso. Chi è brillante – e ci sono ragazzi poveri brillanti che vengono rallentati da compagni di classe più lenti – procede spedito, conseguendo una preparazione adeguata per intraprendere studi universitari anche complessi (cosa che adesso evidentemente non succede molto spesso) e chi è un po’ più scarsino in matematica procede più lentamente, ma procede comunque e via via acquisisce nuove conoscenze e migliora. Lasciandolo in una classe, dove si propongono argomenti che non è in grado di capire, perderà il suo tempo e rallenterà chi potrebbe andare più veloce. A lui non è utile e ad altri è di danno.
La soluzione di avere classi per livello viene vissuta come una perdita di inclusività, ma non è così. Anzi. Diventerebbe una scuola ancora più inclusiva perché nessuno si sentirebbe inadeguato rispetto ai compagni. I programmi svolti sarebbero calibrati esattamente sulle capacità di comprensione e assimilazione del singolo studente. Anche per il futuro inserimento lavorativo è meglio conoscere meno matematica che non conoscerla affatto, come adesso talvolta succede.
Purtroppo non avere proprio basi in matematica ipoteca fortemente la riuscita lavorativa. Non si sta parlando di limiti e derivate. Si sta parlando di proporzioni e percentuali, di saper utilizzare un foglio di calcolo Excel, di aver acquisito le nozioni basiche fondamentali. Mi piacerebbe un confronto sereno e non ideologico su questo argomento.