Quando il tipo di alimento lo consente, dovrebbe essere venduto senza confezione o in imballaggi riutilizzabili, quasi sempre opzioni preferibili al monouso dal punto di vista ambientale. Anche se la produzione di alcuni alimenti, come carne e derivati, può avere un impatto talmente alto che la scelta di un packaging sostenibile deve cedere il passo a quella di una confezione anti-spreco. In questi casi occorre scegliere il male minore, ma non può essere la regola generale. È quanto spiega l’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, in un recente rapporto nel quale si confrontano gli impatti ambientali degli imballaggi in plastica monouso per alimenti da supermercato rispetto alle possibili alternative. Questa analisi approfondisce i risultati di 33 studi basati sulla metodologia LCA (Life Cycle Assessment) pubblicati negli ultimi dieci anni. E chiarisce diversi dubbi sul dilemma tra l’eliminazione del packaging e il rischio di sprecare cibo, spesso utilizzato per avvalorare la tesi della necessità di imballaggi monouso che evitino il deterioramento degli alimenti.
Condizioni di parità per il riutilizzo – A riguardo, il monito dell’Unep: “È necessario creare condizioni di parità per i sistemi di packaging riutilizzabili, sia in termini di costo e convenienza rispetto a quelli monouso, sia in termini di contesto legislativo, che tende a favorire il monouso”. Come farlo? “Con misure che rimuovano le barriere di mercato” come le tasse sui rifiuti di imballaggio monouso, oppure standard per l’imballaggio alimentare che affrontano il problema dell’overpackaging “e richiedono una migliore progettazione, anche sul fronte della riciclabilità”. Un altro strumento, legislativo, è quello della responsabilità estesa del produttore (Epr) che rende le aziende responsabili del fine vita dei prodotti che immettono sul mercato.
Il dilemma: packaging o spreco alimentare? – Nel report si analizzano gli studi sugli impatti ambientali di prodotti refrigerati (come carne, latte, formaggio, yogurt, dessert e cibi pronti), freschi (come mele, pomodori, carote, pane, lattuga) e a lunga conservazione, dall’olio di oliva al miele, dal cioccolato, al tonno, fino ad arrivare a pasta, riso e cereali. Dalla produzione al consumo, l’intero ciclo di vita di ognuno di questi alimenti ha un impatto diverso. Anche l’imballaggio contribuisce all’impatto complessivo, in alcuni casi in modo significativo, in altri trascurabile rispetto alla produzione. Per ogni alimento, dunque, occorre valutare se l’imballaggio genererebbe un impatto per l’ambiente maggiore rispetto all’eventuale spreco di cibo. L’Unep tira le somme.
L’opzione migliore per ogni alimento – Per alimenti come carne, caffè, spremute di frutta e burro, la cui produzione genera alti impatti ambientali, l’imballaggio può essere l’opzione più adatta, a patto che abbia proprietà tecniche tali da minimizzare il rischio di deterioramento. Anche per la carne, a parità di risultati in termini di spreco alimentare, vanno preferiti imballaggi leggeri e monomateriale, invece di quelli multistrato. Per gli alimenti in cui, invece, è soprattutto la scelta del packaging a influenzare fortemente l’impatto ambientale complessivo, l’imballaggio dovrebbe essere ridotto al minimo, se non eliminato o, dove possibile, progettato per essere riutilizzabile. È il caso di bevande gassate, vino e birra, che sono tipicamente confezionati in bottiglie di vetro o lattine di alluminio, ma anche altri alimenti in scatola o in barattolo, come il miele. Ma l’imballaggio dovrebbe essere ridotto al minimo, evitato o, ancora, reso riciclabile o restituibile anche per prodotti come frutta e verdura vendute per intero e per molti prodotti da dispensa. Ci sono, infine, alimenti per i quali gli impatti ambientali dovuti alla produzione sono paragonabili a quelli legati all’imballaggio, come cereali per la colazione, pasta, prodotti lattiero-caseari, zucchero. In questi casi, spiega l’Unep, occorrono studi sul ciclo di vita e, comunque, va raggiunto spesso un compromesso.