Non lascia schizzi di sangue sulle pareti come il plotone d’esecuzione, né puzza di bruciato come la sedia elettrica. Non rievoca pagine orrende della storia, come la camera a gas (ma c’è ora chi vuole reintrodurla). Il 7 dicembre 1982, negli Usa, Charles Brooks fu il primo condannato alla pena capitale a essere messo a morte tramite iniezione letale. Iniziava una nuova era: c’era finalmente un metodo incruento, pulito, sofisticato, rapido, in definitiva “umano”, per portare a termine gli omicidi di stato. Altri stati, dopo gli Usa, l’avrebbero adottato.

Quarant’anni e 1377 esecuzioni dopo, sulle oltre 1500 degli ultimi 40 anni, dobbiamo raccontare una storia del tutto diversa. Le chiamano botched executions, un’espressione che sta a dire che non è andato tutto liscio. Il 3 febbraio 2016, nello stato della Georgia, Brandon Jones, 72 anni, era legato al lettino dell’esecuzione. Per 24 minuti si cercò una vena buona sul braccio sinistro, per altri otto sul braccio destro, poi si riprovò sul sinistro. Invano. Arrivò un altro medico che, dopo 13 minuti, riuscì a inserire l’ago. Dopo sei minuti dall’inizio dell’esecuzione, Jones, del tutto vigile, aprì gli occhi.

Il 22 febbraio 2018, nello stato dell’Alabama, gli avvocati di Doyle Lee Hamm avevano avvisato che sarebbe stato impossibile trovare una vena in un cliente che aveva un carcinoma e un cancro linfatico avanzato. Non gli diedero retta pensando che si trattasse di un tentativo in extremis di fermare l’esecuzione. Per due ore e mezza fecero 12 tentativi per cercare la vena e in uno di questi penetrarono l’arteria femorale. Ma nel frattempo era passata la mezzanotte, il tempo era scaduto e l’esecuzione venne sospesa. Nello stato dell’Alabama di esecuzioni del genere ce ne sono state così tante che a novembre la governatrice dello stato si è arresa e ha ordinato la sospensione a tempo indeterminato, finché non si risolveranno “i problemi”.

Di problemi continuano a essercene parecchi anche perché, in uno dei rarissimi sussulti etici delle grandi aziende farmaceutiche, all’inizio degli anni Dieci Hospira, Novartis e altre hanno deciso di non inviare più, agli stati degli Usa che applicavano la pena di morte, il thiopental di sodio (comunemente noto come pentothal), un anestetico normalmente usato in sala operatoria e altrettanto normalmente, fino ad allora, impiegato nell’iniezione letale insieme ad altri due farmaci, il bromuro di pancuronio, che paralizza i muscoli impedendo la respirazione, e il cloruro di potassio, che arresta il battito cardiaco. L’intero meccanismo della pena capitale è entrato in crisi.

Le direzioni delle carceri hanno iniziato a verificare la quantità delle scorte rimaste e la loro data di scadenza e a guardarsi intorno per capire se ci fossero fornitori meno scrupolosi. Date d’esecuzione sono state rinviate o fissate una di seguito all’altra prima che i farmaci andassero a male. Sono state sperimentate nuove miscele di farmaci, non in laboratorio ma su esseri umani. Sono stati ripristinati vecchi metodi d’esecuzione.

Il 23 giugno 2011 le autorità dello stato della Georgia hanno messo a morte Roy Blankenship utilizzando un nuovo anestetico, il nembutal, prodotto da Lundbeck, nonostante l’azienda danese avesse avvisato che il suo prodotto non era “sicuro” e avesse chiesto che non venisse usato. Dopo la somministrazione del nembutal, Blankenship è rimasto cosciente. Chi ha assistito all’esecuzione ha visto gli spasmi di un uomo messo a morte: girare la testa, muovere gli occhi, aprire la bocca e pronunciare parole incomprensibili.

Il 16 gennaio 2014, nello stato dell’Ohio, Dennis McGuire ha rantolato, sollevando la schiena ed emettendo rumori terribili dallo stomaco alla ricerca di aria, per circa 25 minuti: tanto ci è voluto prima che le due (e non tre) sostanze usate per l’iniezione letale, il midazolam e l’idromorfone, avessero effetto. Sempre nel 2014, ma il 29 aprile, nello stato dell’Oklahoma, l’esecuzione di Clayton Lockett è iniziata nonostante gli avvocati difensori avessero messo in guardia sull’uso di un protocollo sperimentale che prevedeva l’impiego del midazolan, di cui Lockett sarebbe stato la prima cavia.

Immesso l’anestetico, con Lockett dichiarato “privo di conoscenza”, sono stati introdotti gli altri due farmaci: di lì a poco Lockett ha iniziato a respirare affannosamente, a stringere i denti e a cercare di sollevare la testa dal cuscino. I testimoni sono stati fatti uscire. Lockett è morto al minuto 43 della “procedura”, ma d’infarto. Nell’ottobre del 2015, dopo che un’autopsia aveva rivelato che un altro condannato, Charles Warner, era stato messo a morte iniettando una sostanza sbagliata per fermare il battito cardiaco, l’allora governatrice Mary Fallin ha sospeso tutte le esecuzioni in attesa di trovare “un modo umano” per portarle a termine.

Ancora il 2014, ancora midazolam e idormorfone. Il 23 luglio nello stato dell’Arizona Rudolph Wood ha agonizzato per un’ora e 40 minuti. Durante questo orrore, i suoi avvocati hanno presentato un ricorso d’urgenza a una corte distrettuale federale e telefonato a un giudice della Corte suprema federale per fermare tutto. Niente da fare: l’esecuzione è proseguita, anche perché un portavoce del procuratore generale dell’Arizona aveva affermato che Wood “era quieto e stava semplicemente russando”. L’8 dicembre 2016, nello stato dell’Alabama, Ronald Bert Smith ha rantolato alla disperata ricerca di aria e tossito per 13 minuti stringendo i pugni e cercando di sollevare la testa. È stato dichiarato morto 34 minuti dopo l’iniezione di midazolam.

Il 26 maggio 2017, sempre in Alabama, Thomas Arthur ha terminato la sua vita ormai quasi ottantenne nel modo peggiore: rantolando per 15 minuti alla ricerca d’aria dopo che la dose di midazolan non aveva avuto effetto. Nello stato del Nebraska, il 14 agosto 2018, è stata eseguita la prima condanna a morte “sperimentale”. Carey Dean Moore è stato dichiarato morto dopo un’agonia di 23 minuti causata da un’inedita combinazione di quattro farmaci: fentanyl (una delle droghe più usate negli Stati Uniti), cisatracurio, cloruro di potassio e il comune Valium.

Nel 2020 un’indagine della radio pubblica nazionale ha rivelato che nell’84 per cento delle 216 autopsie analizzate dai suoi esperti erano stati rinvenuti segni di edema polmonare: durante l’esecuzione i polmoni avevano continuato a lavorare e i condannati a morte erano deceduti con una sensazione di soffocamento o annegamento, proprio come frequentemente accaduto alle persone contagiate dal coronavirus durante la pandemia da Covid-19.

Torniamo nello stato dell’Oklahoma per seguire gli ultimi sviluppi. Dopo anni di stop a seguito delle esecuzioni di Lockett e Warner e dopo aver rinunciato a introdurre la camera a gas, la direzione delle prigioni ha messo a punto un protocollo per l’iniezione letale, estremamente minuzioso, elaborato appositamente perché “i prigionieri non siano sottoposti a sofferenze non necessarie”. Nell’agosto 2021 il procuratore generale ha chiesto e ottenuto sette date d’esecuzione, una al mese a partire da ottobre. Dopo un provvisorio intervento della Corte d’appello del X circuito, si è proceduto alla prima, quella di John Marion Grant, il 28 ottobre.

Ovviamente, anche col nuovo protocollo non è cambiato nulla. Dan Snyder, reporter della tv locale Fox 25, ha raccontato che dopo la dose di midazolam Grant “ha iniziato ad avere convulsioni, a tal punto che stava quasi per sollevare il lettino cui era legato. Poi ha preso a vomitare e per nove minuti gli inservienti sono dovuti entrare nella camera della morte per pulire il vomito. Grant respirava ancora”.

Sean Murphy, dell’Associated Press, ha parlato di oltre una ventina di scatti convulsivi e ha raccontato come il vomito colasse copiosamente lungo i lati del volto e il collo di Grant. Sconvolto, ha dichiarato che mai nelle precedenti 14 esecuzioni cui aveva assistito aveva visto una scena del genere. Quindici minuti dopo la dose di midazolam, Grant è stato dichiarato privo di conoscenza e si è proceduto alle restanti parti dell’esecuzione. Per Justin Wolf, portavoce della direzione delle carceri, “il protocollo è stato rispettato senza complicazioni”. Il suo superiore, Scott Crow, si è spinto a dichiarare che “non c’è stata interruzione della procedura: vedere una persona vomitare non è una cosa piacevole, ma non ritengo sia stata inumana. Del resto, il rigurgito durante la sedazione non è un evento del tutto raro”.

Le storie raccontate in questo post sono tratte dal mio libro “Molla chi boia. La lenta fine della pena di morte negli Stati Uniti”, pubblicato da Infinito Edizioni.

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