Che il prossimo decennio sia decisivo per la storia umana lo scrive nell’introduzione il documento in 80 pagine sulla strategia di difesa Usa (Dns), centrato in gran parte sull’impiego dell’arma nucleare. Decisivo lo sarà, credo, perché incombono sul pianeta tre emergenze indifferibili se irrisolte: il brusco cambiamento climatico, la possibilità di una guerra nucleare, una crescente e insopportabile ingiustizia sociale. Ma, se si guardano i nostri telegiornali o si ascoltano le dichiarazioni finali dei summit sul clima o dei G20, sembrerebbe che il tema di fondo del prossimo decennio debba essere quello della contesa per la supremazia militare ed economica tra Usa e Cina, con la Russia ridotta a potenza regionale o peggio. Geopolitica al top e biosfera e natura retrocesse a preda del vincitore.
Una simile distorsione nell’interpretare l’epoca attuale comporta un arretramento di civiltà, un ignobile spreco di risorse necessarie alla sopravvivenza, la predisposizione alla guerra come soluzione della “concorrenza” tra blocchi in corsa per l’egemonia globale. La pace, che è il diritto sociale da cui dipende la fruizione di ogni diritto individuale, sociale ed ambientale viene collocata ai margini, forse perché i governanti della parte più ricca dell’umanità arrivano a pensare che non ci sia spazio per tutti nel futuro del Pianeta.
Nel solco di una così terrificante ipotesi, mai palesemente esplicitata, la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina non troverà fine e anzi si allargherà a nuovi cobelligeranti, mentre la società, sotto il segno di atroci sofferenze, distoglierà lo sguardo dal fare di dove abitiamo un luogo vivibile, ben oltre il prossimo decennio. E’ in atto una potentissima “distrazione” dell’opinione pubblica, che si rivela anche attraverso un lessico profondamente incisivo che passa addirittura dalle istituzioni. Ormai il nazionalismo riarmato è la forma di competizione proposta ai popoli dentro i loro confini: nella Defence National Strategy Usa (Dns) la parola “nostra patria” compare 59 volte e i nemici sono chiamati “concorrenti”, mentre i militari sono definiti “forza lavoro” ed è l’esercito che deve occuparsi di “resilienza al clima”; da noi, più timidamente, il governo titola i nuovi ministeri con parole come “sicurezza energetica”, “sovranità alimentare”, “merito”, che non alludono certo all’inclusione e alla fraternità universale. Ne segue che la democrazia liberale e lo spirito imprenditoriale diventano l’orizzonte da estendere, ma non superare, affinché “tutti la pensino allo stesso modo” e la crescita prosegua per i più attrezzati.
In un cambiamento così denso di potenza è l’energia che fa da padrone, anche sotto la forma più incontrollabile delle armi. Così, se la bomba nucleare non è più solo un elemento di deterrenza – come lo è stata fino ad ieri dopo Hiroshima e Nagasaki – allora entra in gioco sia come dissuasore tattico che addirittura come occorrenza di “first strike” quando le minacce del nemico mettono in discussione una supremazia affermata e da esibire (“deterrenza integrata” è la ridefinizione nella Dns). Nella prospettiva di un mondo caratterizzato dalla presenza della vita, una tale discontinuità è enorme. In questo quadro “scosso” è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’uso incontenibile delle armi – fino a quella atomica (si pensi che il presidente della Lombardia Fontana ha dichiarato di essere disponibile a valutare un reattore nucleare in Lombardia).
Assunto questo rischio, la guerra locale assume già dimensione globale. E il rilancio dei fossili fa parte di un “ritorno al prima” che la pandemia sembrava avere esorcizzato. Pertanto, mentre viene sanzionato e tolto di mezzo il gas russo, non si programma affatto il rilancio delle rinnovabili, ma si acquista addirittura metano liquido estratto da pozzi oltremarini e localmente rigassificato, con un bilancio energetico ed economico disastroso (il prezzo che gli europei pagano per il gas è quattro volte quello quotato negli Stati Uniti).
Ci si accorge solo ora che la transizione energetica in tempo di guerra sta diventando anche una guerra commerciale Usa-Ue (vedi l’articolo di F. Saraceno su Domani del 4 dicembre). Che l’energia sia un bene pubblico strategico è diventato chiaro con lo scoppio della guerra in Ucraina, che ha rotto le cuciture con la Russia del modello energetico tedesco e italiano e di altre regioni continentali, mentre un’estate di siccità e problemi di manutenzione in vari impianti hanno messo in discussione anche la riproducibilità del modello francese, progettato attorno al nucleare.
L’energia più economica è diventata un enorme vantaggio competitivo per le aziende americane. Biden ha varato una legge che prevede 800 miliardi di aiuti federali per un volume di investimenti industriali da 1.700 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Si tratta di un grande sforzo nella direzione della manifattura, per tutto ciò che ha a che fare con la transizione energetica: pannelli, turbine eoliche, idrogeno, nucleare, batterie, auto elettriche, cattura delle emissioni, biocarburanti, estrazione e raffinazione delle materie prime strategiche, auto elettriche, semiconduttori. Al confronto, il Recovery europeo da 800 miliardi – di cui gran parte solo per acquistare e installare tecnologie fatte all’estero – sparisce. Le aziende europee di grandi dimensioni stanno pianificando nuovi investimenti negli Stati Uniti o addirittura trasferendo le loro attività esistenti alle fabbriche americane: Enel (Italia), Safran (Francia), Northvolt (Svezia), Iberdrola (Spagna) e la multinazionale tedesca Basf ne sono un esempio.
C’è bisogno di un robusto ritorno della politica sul lavoro, l’occupazione, la riconversione ecologica, inserito nella ricerca ostinata della pace. Robert Habeck, vice-cancelliere tedesco, ha dichiarato all’AdnKronos: “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche”.
In Italia, invece, si discute al più di condoni e mini-cunei fiscali, soglie del contante, quota 103 per la pensione, al più di aiuti in bolletta, perdendo di vista le politiche industriali e, per insana abitudine, cancellando il giorno dopo quel che è accaduto il giorno prima, come è avvenuto per la grande manifestazione del 5 novembre a Roma per il cessate il fuoco.