Il primo incontro con la danza, a 16 anni, fu colpo di fulmine. Sognava di diventare veterinario, invece Emanuele Cristofoli – in arte Laccio – si è ritrovato a ballare (e a far ballare) sui palcoscenici più blasonati e a collaborare con miti assoluti come la Carrà, Bolle, i Mäneskin. Il suo 2022 è l’anno del triplete che vale una carriera: Sanremo come curatore della performance di Laura Pausini, coreografo di Eurovision, Director Choreographer della cerimonia di apertura dei Mondiali di Qatar. Oltre a X Factor, di cui è direttore artistico in coppia con l’amico di sempre Shake, co-fondatore con lui dei Modulo Project, la compagnia di danza urbana che si è imposta grazie al suo stile non convenzionale. “È stato un anno intenso e indimenticabile”, racconta Laccio a FqMagazine alla vigilia della finalissima di X Factor 2022, lo show Sky Original prodotto da Fremantle, in onda giovedì 8 dicembre su Sky Uno, in streaming su NOW e in chiaro su TV8.
Che la danza fosse la sua passione l’ha scoperto tardi, a 16 anni. In che modo?
Una sera sono andato a teatro a vedere uno spettacolo in cui si mescolavano diversi generi, dall’hip hop allo urban. E vedendo quei ballerini – tra cui Shake, che poi sarebbe diventato uno dei miei migliori amici e “socio in affari” – ho rosicato. “Lo voglio fare anch’io”, mi sono detto.
E cosa fece?
Mi sono messo in gioco. Mi iscrissi ad una scuola di danza dove incontrai Marisa, la mia prima maestra: fu lei a intuire il mio potenziale. Iniziare a ballare da grande non fu facile, mi imbarazzava pure.
I suoi riferimenti?
Non ne avevo. Vivevo a Pontinia, in provincia di Latina, lo spettacolo non era contemplato nel mio orizzonte, era una dimensione irraggiungibile. Era più facile immaginarmi veterinario o nella polizia scientifica che su un palco.
Invece, ci ha preso gusto.
Ho capito che ballando stavo bene, la danza mi affascinava, mi piaceva ogni aspetto. Dopo pochi mesi, l’insegnante mi mandò a ballare con un gruppo di ragazze e ragazze con cui scattò un feeling immediato. Così siamo diventati un team di lavoro, ci autoproducevamo le cose, dai costumi alle scene integrando il mondo visual. Fu l’embrione di Modulo Project: a distanza di vent’anni siamo ancora assieme.
Poi andò a Roma a studiare interior design allo Ied, ha realizzato anche una collezione di moda e nel frattempo ha continuato a danzare. Quando ha capito di avercela fatta?
Vent’anni fa, sul palco del Palalottomatica a Roma, per il concerto di Tiziano Ferro all’epoca dell’album 111. Abbiamo iniziato a ballare, ho visto la gente felice e ho pensato: “Questo è il mio mondo”. Con Tiziano abbiamo iniziato assieme: faceva lezione con noi, abbiamo realizzato i primi videoclip e le prime esibizioni.
Oggi in che rapporti siete?
Da quando è in America ci siamo persi di vista. Lui ha cambiato linguaggio e stile, ma lo stimo sempre molto.
Lei ha detto: “Scegliere di diventare danzatore, vuol dire avere coraggio”. Perché?
Un conto è vivere la danza come passione, un altro come professione. È un ambiente selettivo, come quello della musica. Pensare di avere vita facile è un errore: ci vogliono impegno, studio, sacrificio, errori. E non è detto che ce la si faccia.
Non pensa che la retorica del “se vuoi puoi”, propagata anche dai talent, abbia prodotto tanti danni?
Insegnando in un’accademia, ho a che fare da anni con i sogni dei ragazzi. È giusto sognare, anche in grande, ma poi bisogna tradurre i sogni in realtà, lavorando e sapendo cogliere le occasioni giuste. Per questo cerco di offrirne ai miei allievi, portandoli con me nei miei lavori. Certo, mantenere un target elevato non è sempre facile.
Il primo comandamento per chi vuole trasformare la passione per la danza e per il canto in mestiere?
Crearsi una personalità, lavorare per irrobustire i propri punti di forza: avere una caratteristica – tecnica o fisica – e valorizzarla, ti fa distinguere dagli altri. E poi avere la capacità di adattarsi ai contesti, senza fossilizzarsi in un ambito che magari non è quello giusto. Bisogna spingere sulla propria unicità.
La sua unicità qual è?
La capacità di trovare un equilibrio nei linguaggi. Perché non è così scontato trovare un punto di incontro tra il proprio gusto e i desiderata dei committenti, che siano grandi artisti o una società.
Siamo alla vigilia della finalissima di X Factor 2022. Un bilancio di questa edizione?
Se mi chiede se sono soddisfatto dell’insieme, la risposta è ni: penso sempre che si possa sempre fare meglio. Anche se poi, quando ero a Doha per i mondiali mi sono guardato il quarto live da spettatore ed ero contento del risultato realizzato dal nostro team.
Dei ragazzi che pensa?
Sono contento perché loro determinano le possibilità di crescita, anche in un arco di tempo così breve. Lavoriamo sulle loro personalità, quelle anonime non aiutano: ci è capitato in altre edizioni di fare fatica, quest’anno invece abbiamo potuto mantenere i loro sapori ed esaltare i loro mondi.
Passiamo in rassegna i finalisti. Beatrice Quinta.
Con lei è stato facile pensare all’espetto performativo, sperimentando e giocando. Nei talent è una tipologia di cantante che in passato è stato penalizzato. Ma lei è vera, non artefatta e il pubblico l’ha premiata.
I Santi Francesi.
La loro sperimentazione ci ha permesso di osare un linguaggio internazionale, li abbiamo trattati come se fossero degli ospiti.
I Tropea.
Sono stati una sorpresa, hanno spinto fino a dare il massimo. Il fatto di finire continuamente in ballottaggio non li ha scalfiti.
Linda.
Con lei abbiamo giocato su un “trattamento estetico” molto poetico: ci ha permesso di portare dentro le sue performance la forza della danza, con linguaggio fresco.
Dalla finale cosa dobbiamo aspettarci dal punto di vista dello show?
Un grande spettacolo, un impatto visivo forte che costruiamo in un arco di tempo breve. Il palco viene disegnato tempo prima ma le singole performance nascono al quinto live, quando abbiamo più chiara l’idea di chi andrà in finale. Lavorare sotto pressione è un limite ma anche un grosso stimolo.
A proposito di questo, in un’intervista lei disse: “L’auditel ha tirato fuori i numeri, trasformando la creatività in necessità”. Non è un paradosso che X Factor, nonostante un impatto scenico ed estetico da show internazionale, soffra per i bassi ascolti?
Quella era una mia riflessione generale, non su X Factor. Credo che il format venga comunque premiato per la qualità. Ci ritroviamo a confrontarci con un pubblico esigente, attento colto, abituato ad una certa estetica. Non è un pubblico ampio da generalista, se vogliamo, ma un bel pubblico.
Il suo 2022 è stato speciale. A Sanremo ha curato l’esibizione di Laura Pausini e l’omaggio a Raffaella Carrà, con cui ha avuto modo di lavorare all’epoca di The Voice. Se lo ricorda il vostro primo incontro?
Ho dovuto preparare per lei un momento di spettacolo ed è venuta in sala prove. Ricordo la mia emozione e la sua sincerità: mi confessò di aver pensato “ma questo coreografo cos’ha, perché fa le cose tutte veloci?”. Era quasi spaventata, poi ha apprezzato il mio linguaggio e ogni tanto mi dava dei consigli. Un ballerino una volta doveva fare un gesto atletico imponente, lei si voltò e mi disse sorridendo: “Anche un po’ meno”. Abbiamo avuto un rapporto bello, fatto di lunghe chiacchierate. Me la ricordo come un’eterna ragazza.
Un altro incontro speciale è stato quello con Roberto Bolle.
Quando sono salito in ascensore, al Teatro alla Scala, si sono aperte le porte all’ultimo piano e mi sono ritrovato in sala prove con lui alla sbarra. All’inizio ho pensato: “Che cosa ci faccio qua?”. S’immagini dover dire a Bolle che passi fare e come muoversi. Io mi definisco un performer, non un danzatore e davanti a me avevo la danza fatta persona. Per fortuna la presenza di Virginia Raffaele ha stemperato la tensione.
Sfogliando l’album del suo 2022, c’è anche l’esperienza all’Eurovision, di cui è stato il coreografo.
Eurovision è come fare un X Factor gigante. È stato bello lavorare con Laura Pausini, Mika e Alessandro Cattelan in maniera intensa: era come giocare per la Nazionale, volevamo dimostrare a tutta l’Europa, e non solo, ciò di cui noi italiani siamo capaci.
L’ultima grande scommessa sono stati i Mondiali in Qatar, dov’è stato chiamato come direttore della coreografia della cerimonia d’apertura. C’era più ansia o voglia di fare bene?
Il giusto mix, perché un palco internazionale un po’ di agitazione te la mette e il clima strano, almeno inizialmente, mi ha spinto a domandarmi più volte se stessimo andando nella direzione giusta.
Che risposta si è dato?
Che spingere verso un messaggio di unione era giusto. Io ho curato anche il momento con Morgan Freeman e il dialogo iniziale tra i voyagers, gli abitanti del mondo, era un modo per dire “guardate che è il momento di unirsi, non di dividersi”. E c’era anche lì la voglia di dimostrare il dinamismo creativo di noi italiani, far vedere ciò di cui siamo capaci.
Ha parlato di “clima strano”: le polemiche sui diritti violati, in particolare contro la comunità LGBTQI+, tengono banco da settimane.
Ben venga che si tirino fuori questi temi: penso che questa esposizione abbia permesso di farci delle domande e squarciare un po’ di ipocrisia.
Grandi artisti come Dua Lipa e Rod Stewart hanno rifiutato di esibirsi. A lei che impressione hanno fatto quei no?
Mi hanno fatto pensare e fatto prendere una posizione. Ho preferito esserci e dire la mia. E poi lì è nata la collaborazione con la star del K-pop Jeon Jung Kook, dei BTS: è un personaggio con una forza mediatica incredibile e la coreografia è diventata virale.
Guardando al futuro, ci sarà a Sanremo 2023?
Al momento non lo so. Intervengo, se mi chiamano, là dove c’è un ospite e c’è da portare una quota show. Per altro in quel periodo sarò impegnato su Rai1 con un altro progetto molto bello di cui non posso dire nulla.
Se Maria De Filippi la chiamasse a fare il direttore artistico del serale di Amici accetterebbe?
Mi metterei al tavolo, mi informerei su molti dettagli e poi le chiederei: “Sei disposta a cambiare delle cose?”. È un programma che dà grandi possibilità ai ragazzi e sarebbe una grande scommessa perché mi rimetterebbe in discussione.
Dica la verità, teme Alessandra Celentano. Una volta lei ha detto che la danza classica “non è indispensabile per tutte le forme di danza”. La boccerebbe subito.
La Celentano mi boccerebbe e io mi lascerei bocciare. La danza classica è fondamentale per chi vuole essere poliedrico, sviluppare capacità di allungamento e grande elasticità. Ma ci sono danzatori scarsi nella classica e fortissimi in altre tecniche ed è giusto che si concentrino su quelle.
Il suo grande sogno da realizzare?
“E dopo questo progetto, che succede?”, è una domanda che mi faccio sempre. Non ho un sogno preciso in testa, piuttosto vorrei continuare a lavorare in contesti sempre diversi: mi piace cambiare le carte in tavola, sperimentare, osare sempre di più.