“Il mondo del carcere sta vivendo un momento di particolare complessità e criticità”. Così si legge in apertura della ricerca sui suicidi in carcere del Garante nazionale delle persone private della libertà. E i numeri testimoniano tragicamente questo difficile momento. Nei primi undici mesi del 2022 negli Istituti penitenziari sono decedute 194 persone, di cui ben 79 per suicidio. Una cifra impressionante, di gran lunga superiore – come si legge nella relazione – alla media dei suicidi verificatisi nei nove anni precedenti, che è stata pari a 44. I numeri in questo caso non sono purtroppo freddi. O forse sono invece gelidi nella loro drammaticità.
Nelle carceri italiane, in questo momento, sono recluse poco più di 56.000 detenuti. In 79 si sono uccisi nell’anno in corso. Immaginiamo una città o un quartiere che abbia un numero analogo di abitanti e immaginiamo quale potrebbe essere la sensazione di terrore di fronte a tanti propri cittadini che decidono di togliersi la vita. Si interrogherebbero politici, sociologi, opinionisti. Qualche magistrato aprirebbe un fascicolo penale. Rispetto ai suicidi in carcere il silenzio è invece assordante.
La ricerca del Garante nazionale aiuta a posizionare i riflettori su un mondo che altrimenti resterebbe opaco, a far conoscere quello che accade giorno per giorno, morte per morte, nella realtà penitenziaria. Ogni detenuto che si suicida porta con sé il proprio carico di disperazione. Faremmo del torto alla loro memoria se li considerassimo solamente numeri da censire. Ma proprio i numeri ci aiutano a interpretare la situazione. Su alcuni di questi numeri intendo soffermarmi.
Ben cinque sono le donne che si sono tolte la vita nel 2022. Non accadeva da tempo immemore. Sono 33 i detenuti stranieri che si sono uccisi. Ben 18 di loro risultavano senza fissa dimora: segno di come il carcere sia oggi il luogo di internamento di quell’eccedenza sociale rimossa dal nostro welfare claudicante. Ci si toglie la vita in tutte le fasi della carcerazione, in attesa di primo giudizio o già condannati. Fa tuttavia impressione vedere come ben 15 detenuti si siano suicidati entro i primi dieci giorni dall’ingresso in prigione, nove dei quali addirittura entro le prime 24 ore.
Che fare allora di fronte a numeri tanto drammatici? La soluzione non è certo quella di costruire nuove carceri. Né quella di aumentare sempre più la risposta penale e il numero delle persone destinate alla galera (quale sarebbe ad esempio l’esito della norma contro i raduni e i rave parties). C’è bisogno invece di riempire il carcere di vita, di non lasciare sole le persone detenute con i loro pensieri di morte. Chi conosce il carcere sa che c’è bisogno di aprire scuole, università, di offrire lavoro, di aumentare i contatti con il mondo esterno, con le famiglie, con gli amici. C’è bisogno di normalità.
Fuori c’è bisogno di un welfare che aiuti le persone a non andare dentro. Dentro c’è bisogno di giovani operatori penitenziari motivati e pieni di energie. In questo momento sono in corso di formazione 57 nuovi direttori penitenziari, vincitori freschi di concorso. Sono ancora troppo pochi per supplire alle tante carenze del sistema. Vi sono regioni dove un direttore deve governare due o tre carceri contemporaneamente. Si rischia il burn out. Per quel direttore c’è la possibilità fondata che i detenuti diventino solamente numeri di matricola. Con difficoltà potrà avere occasione di incrociare il loro sguardo, le loro storie, la loro individualità. Con difficoltà si potrà rendere conto di quando hanno bisogno di sostegno. Con difficoltà potrà aiutare a ridurre il numero dei drammatici episodi sui quali il Garante nazionale ci ha fornito uno spaccato di comprensione.