L’ultimo messaggio video di Massimiliano, in cui diceva di essere costretto ad andare in Svizzera per morire tramite suicidio assistito, non sono riuscita a vederlo fino alla fine. Costretto ad andarmene via, per andarmene via, dice il 44enne toscano affetto da sclerosi multipla. Sapevo che bastava un’arma da fuoco, ma io volevo morire in modo indolore, dice sempre Massimiliano. Così si è messo in contatto con Marco Cappato, promotore della campagna eutanasia legale, che fin dal febbraio 2017 (suicidio assistito di Fabiano Antonani dj Fabio) accompagna in Svizzera presso la sede dell’associazione Dignitas chi vuole morire. E giovedì, 8 dicembre, scortato da Felicetta Maltese, attivista della campagna Eutanasia Legale, e da Chiara Lalli, giornalista e bioeticista, Massimiliano ha finalmente beneficiato dell’ultimo diritto umano come recita il claim del sito dell’associazione.
In Italia abbiamo una legge sul fine vita (n. 219/2017 “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) che non è però sinonimo di suicidio assistito, o eutanasia, ancora illegale. Tuttavia, per chi si trova in una condizione di malattia irreversibile o terminale e soffre di patologie refrattarie a qualsiasi tipo di trattamento medico che ne allevi il dolore indicibile e che a causa di tale malattia versa in condizioni che hanno minato la qualità e dignità della propria vita, ha solo tre strade: la clemenza di qualcuno che per pietà gli dia la morte, il coraggio, come diceva Massimiliano, di spararsi con un’arma da fuoco, oppure andare in Svizzera dove è possibile ottenere il suicidio assistito, o eutanasia.
La sentenza della Corte costituzionale 242/2019, che in merito al caso di un 43enne originario delle Marche (tetraplegico da dieci anni a seguito di un incidente stradale, chiese l’autorizzazione al suicidio assistito con il sostegno legale dell’associazione Luca Coscioni), rese legale a tutti gli effetti il suicidio assistito, non può essere punibile l’assistenza al suicida nel caso di persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Per un momento avevamo creduto di essere giunti ad una ‘fine istanza’ di battaglie per avere una legge. Ma fino ad oggi, di quella sentenza nessuno ha potuto beneficiare, dacché il servizio sanitario nazionale non agisce trincerandosi dietro l’assenza di una legge che ne definisca le procedure.
Nonostante l’Accordo di Villa Madama del 1984, per quanto riguarda leggi su materie bioetiche, l’Italia sembra ancora essere un’enclave della Città del Vaticano. E in Parlamento si pensa più ai propri interessi di sopravvivenza politica non disturbando il clero, piuttosto che legiferare per colmare vuoti normativi e rendere la vita delle persone più umana. Chi non ricorda la legge 40/2004, che ha spesso trovato un ridimensionamento, o forse è più giusto dire smantellamento delle sue norme, nelle aule dei tribunali? Da quando entrò in vigore, la magistratura ha emesso 48 sentenze di modifica della legge.
Tornando all’argomento del post, il suicidio assistito, la Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, al n° II recita: “Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore”. Eccoci arrivati al punto. Il dolore. La Chiesa cattolica ne ha fatto la più solida base per la salvezza eterna. E sciaguratamente, pare che questa – il dolore – sia la conditio sine qua non anche degli italiani che hanno la sfortuna di contrarre una malattia degenerativa che non professano fede cattolica. Intanto, Felicetta Maltese e Chiara Lalli, per la loro disobbedienza civile in aiuto ad un uomo che nella sua vita non voleva più una indicibile sofferenza, rischiano fino a dodici anni di carcere per il reato di ‘aiuto al suicidio’.