Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)
“È un buon momento per il football americano in Italia, non solo per il titolo europeo vinto dalla Nazionale nel 2021, ma anche perché da tre anni un club italiano gioca nella European League of Football, campionato che è sotto osservazione della NFL. Per il nostro sport l’esperienza in giro per il continente è fondamentale come è utile che i giocatori italiani siano andati a giocare all’estero, in campionati che dal punto di vista tecnico sono ancora superiori al nostro, come Austria e Germania. Il nostro torneo è comunque di ottimo livello e da una decina di anni è molto equilibrato”. Classe 1974, Davide Giuliano è il capo allenatore della Nazionale italiana di football americano che nel 2021 è diventata campione d’Europa. Per la stagione 2023 guiderà anche i Warriors Bologna.
Commissario tecnico e allenatore di club: come si riesce a mantenere entrambi gli impegni?
“Sono diventato ct nel 2014 e per concentrarmi su questo compito avevo abbandonato qualsiasi velleità di allenare una squadra di club. Ma in questi anni con lo staff azzurro ho fatto un lavoro preciso, sia l’allenamento che il gioco sono rimasti quelli. Per cui il carico di impegni è diminuito e ora riesco ad allenare anche un club. Per fare entrambe le cose serve un’etica professionale molto alta. Soprattutto in uno sport dove girano pochi soldi, un posto in Nazionale per un giocatore favorirebbe il club di provenienza. Ma la mia etica è molto elevata. Al mio coaching staff ho sempre chiesto di avere i miei stessi valori e devo dire che sono stato bravo e fortunato nella scelta. Se scendi a compromessi prima o poi li paghi, soprattutto nel nostro sport dove le voci girano velocemente”.
Come lavora uno staff di allenatori numeroso come quelli che ci sono nel football?
“Nello staff della Nazionale ci sono 11 allenatori compreso il capo, poi ci sono un team manager, un general manager, tre addetti alla logistica, tre fisioterapisti e un medico. Il football americano ha cinque ruoli in attacco e altrettanti in difesa, serve dunque un allenatore per ogni reparto e poi un coordinatore sia per la difesa che per l’attacco. Io oltre ad essere capo allenatore, cioè una specie di manager che programma il lavoro per tutti gli altri che hanno le competenze tecniche per gestire il loro compito, io sono anche coordinatore dell’attacco”.
Come si fa ad andare d’accordo in 11?
“Ce la si fa se il capo ha la possibilità di scegliere i propri collaboratori. Io sono stato fortunato in Nazionale. Quando ho fatto un camp per il reclutamento dei giocatori ho testato pure gli allenatori e li ho scelti in quel momento. A volte però bisogna anche saper dire addio a qualcuno”.
Alcuni di loro allenano anche squadre di club. Come sarà affrontarli in campionato?
“Ho visto che tanti di loro oggi hanno nel loro bagaglio sportivo e culturale tanto di quello che c’è in Nazionale. Sono molto orgoglioso di ciò. Affrontarli sarà difficile. Ci conosciamo benissimo e c’è tanta stima reciproca. Dal punto di vista tattico sarà una sfida positiva”.
La tattica è importante?
“Il football è paragonabile agli scacchi per via dei tatticismi. Ad una mossa serve rispondere con un’altra mossa e tutto questo va stabilito prima delle partite”.
Le tattiche saranno segrete?
“In questo sport spesso la tattica è segreta, invece io penso che più si è aperti più il movimento cresce. Io ho sempre dato tutto quello che conosco. Se migliorano i miei avversari, migliorano anche i miei giocatori provando a batterli. Il football evolve sempre. Per esempio cambia anche la tipologia di atleta in un ruolo preciso: un running back negli anni 80 doveva pesare almeno 120 kg, oggi ne bastano 90”.
Lei come hai conosciuto per la prima volta il football?
“Ero alle superiori e nel 1991 andai a studiare negli Usa, alloggiando presso l’Università di Miami dove si allenavano gli Hurricanes. Insomma, ho conosciuto il football dove lo hanno inventato. Poi all’Università in Italia un compagno di studi dopo la lezione andava direttamente ad allenarsi: mi unisco anch’io e fino al 2008 sono stato un giocatore. Ho fatto parte del Blue Team che ha partecipato al Mondiale del 1999. Ero uno dei 45, la riserva della riserva della riserva. Ammetto che non sono stato un granché come giocatore”.
Come saranno i prossimi Mondiali ai quali l’Italia campione d’Europa partecipa di diritto?
“Dovevano essere in Germania l’anno prossimo, ma sono stati rinviati di due anni senza un vero perché. Per motivi di età molti che erano agli Europei in Svezia non ci saranno, ma stanno crescendo molti giovani anche grazie al Flag Football che si fa da piccoli”.
Che ricordo ha della finale vincente di Malmoe?
“Per l’Europeo in Svezia ci eravamo preparati molto bene, in finale nel primo tempo avevamo in pratica già vinto la partita. Abbiamo battuto anche la favorita Austria! Dopo la vittoria abbiamo corso verso l’aeroporto e non abbiamo avuto tempo di festeggiare moltissimo”
Chi sono stati i suoi maestri?
“Sono stato l’unico allenatore a Catania per dieci anni. Quando la vecchia dirigenza ha deciso di non proseguire l’esperienza, sono andato avanti da solo pur di non abbandonare il football. Mi sono dovuto preparare molto, allora la Federazione organizzava tanti clinic. Ho inoltre investito molto su me stesso, andando in Usa. L’esperienza più formativa l’ho avuta a Berkeley nell’Università dove c’era, come allenatore di prima divisione di College, Tony Franklin. Il coach mi ha messo sotto la sua ala protettiva 24 ore su 24. Ho impostato il mio sistema offensivo sul suo, senza replicarlo perché ovviamente là il materiale umano è diverso”.
Sono tutti così disponibili i coach americani?
“No! O perché sono gelosi o perché non ti ritengono in grado di seguirli. Con qualcuno capita che vai là solo a fare manovalanza”.
Da giocatore ha giocato anche in una squadra di Belfast.
“Ho seguito Alfonso Genchi, il mio allenatore a Catania. Avventura umana molto bella, ma il livello del campionato era più basso di quello italiano”.
Cosa pensa dell’utilizzo degli oriundi in Nazionale?
“Ho chiesto alla Federazione che oltre a due americani per club ci fosse la possibilità di avere in squadra un oriundo, cioè un italo-americano, per averli a disposizione in Nazionale quando servono. Ad ogni modo li convoco solo se meritano. In finale all’Europeo ne avevo sei, ma recentemente anche solo due. Devono avere un impatto positivo dentro e fuori dal campo”.