“Si chef!”. Un solo grido unisce oggi i sottoposti (in cucina) di tutto il mondo. Da Masterchef Italia a Masterchef Australia, passando da MasterChef Vietnam: sous chef, chef de partie, commis, lavapiatti, tutti agli ordini dello chef de cuisine. Una gerarchia lavorativa e psicologica, che fino a trent’anni fa nessuno pareva conoscere, su cui il cinema si è gettato con una certa fervida creatività. Tralasciamo quel Burnt (Il sapore del successo) del 2015, invecchiato in botte di rovere oggi dal sapore forte e deciso, per arrivare a tre titoli presenti in vario modo da un mese a questa parte in sala. Partiamo dal freschissimo arrivo de La Brigade, in italiano proprio Si chef, film diretto dal francese Louis-Julien Petit, già inatteso autore di un exploit per un film apparentemente di nicchia e tematicamente impegnato come Le invisibili che in Francia quattro anni fa andò oltre il milione e mezzo di euro d’incassi. Petit torna a esplorare valore e dolore del contesto lavorativo precario, percorrendo la traiettoria di Cathy, prestigiosa, sostenuta ma comunque fragile sous chef (o chef in seconda, ovvero quello che fa tutto mentre lo chef capo sta in tv a tirarsela) che, frustrata dall’impossibilità di vedere apprezzato del tutto il suo talento culinario, si licenzia da un ristorante pluristellato contando che troverà subito posto altrove o che, prima o poi, aprirà un suo locale senza che nessuno le possa dare ordini. Le telefonate ai colleghi non vanno a buon fine e l’offerta vitto alloggio in uno scalcinato centro di accoglienza di ragazzi migranti minorenni in mezzo alla campagna finisce per essere accettato. È complicato però preparare i pasti da sola con cura certosina per cinquanta persone. A Cathy servirà l’aiuto di una decina di ospiti del centro, da un piccoletto di dieci anni ad altri che sembrano più che maggiorenni, per introdurre ordine e disciplina lavorativa e culinaria nella cucina del centro.
Giocato sul doppio fondo amaro di quella che da Ken Loach in avanti si è cominciato a chiamare commedia sociale, Si Chef- La Brigade mette a confronto due tipologie di sottomissione: quella di Cathy lasciata ai margini dal giro che conta della cucina stellata ma comunque con margini ampi di sopravvivenza, e quella dei ragazzini migranti sottoposti ad una rigidissima legge statale che li obbliga a tornare al loro paese se l’esame delle loro ossa stabilirà la maggiore età. Più che una mansione, il taglio alla julienne delle verdure o a come impiattare la salsa, i ragazzi impareranno a credere in sé stessi e a sognare un futuro normale in mezzo al turbine di un mondo che sembra averli scagliati oltre il precipizio della vita. Petit evita il cicaleccio dei singoli casi a due tracciando ampie linee di dialogo con un cast quasi sullo stesso piano, alterna squarci di tragico realismo con piccole impennate di implosa comicità quasi a dirci che un sorriso, o un piatto da tre stelle Michelin, potrebbero non bastare per continuare a salvarsi. Così dopo una buona ora di film e con un sottofinale che parte larghissimo e un po’ si perde, ecco la chiosa verticale che richiama la crudezza del destino in una galleria di quadri di giovani chef migranti da far venire i brividi.
C’è pochissimo da ridere, invece, perché il film è piuttosto mal riuscito, in The Menu, oramai a fondo uscita italiana dopo un’ottima tenitura (dal 17 novembre quasi due milioni di incassi). Qui è Ralph Fiennes ad indossare i panni soffici e griffati di Julien Slowik, uno chef guru imperturbabile, massimo esperto di gastronomia molecolare, gran maestro di una piccolissima concettuale abbuffata per ricchissimi clienti selezionati con cura nell’isola ristorante dove cucina e dove non prende il segnale del telefono. Slowik comunque lo ha già annunciato: sarà una cena in cui tutti moriranno compresa tutta la sua brigata. Insomma, The Menu – regia di Mark Mylod, già con mani in pasta nell’umorismo di Sacha Baron Cohen – è un gioco al massacro strabicamente al contrario. Programmato come allegoria nera, come sorta di sterminio dei clienti alto borghesi strafottenti a tavola, colpevoli per svariati motivi etici (critici culinari che non sanno ciò che scrivono, clienti danarosi fedifraghi o banalmente distratti fieri solo di pagare, giovani informatici e attorucoli che hanno portato la cucina in tv) finisce per essere un banalissimo horror involontariamente sofisticato. Questo perché non potendo comprendere se non a fondo minutaggio (quando la popolana e un po’ prostituta Margot/Anya Taylor-Joy non prevista nella lista clienti, riesce realmente a farsi allontanare dall’isola su richiesta di Slowik in quando non altoborghese) le motivazioni profonde di questo odio di classe da parte di Slowik, per l’intero film si finisce per parteggiare (quindi leggere all’opposto delle intenzioni dell’autore) quei clienti vessati, costretti a seguire l’atteggiamento nazisticamente folle dello chef. The Menù ha poi quella pretenziosità tutta eccentrica statunitense di stuzzicare simbolicamente la pancia (le amputazioni gratuite, il suicidio di massa col fuoco) lavorando anonimamente di cervello. Insomma, Bunuel, o anche solo Greenaway, sono lontani miliardi di chilometri e di tavolate.
La cucina usata come metafora di una vertigine sociale alto-basso deflagra infine in Boiling point dell’inglese Philip Barantini (con Si chef! – La brigade è distribuito da I Wonder), oggi presente ancora in una manciata di sale italiane. Si tratta di quello che dovrebbe risultare un unico piano sequenza da poco prima dell’apertura fino a sera inoltrata nel locale dell’importante chef londinese Andy (Stephen Graham). L’uomo sguscia tra tavoli, bancone del bar e cucina con brigata, evitando gli effetti squalificanti di un’ispezione sanitaria, un ricattatorio ex socio divo della cucina in tv venuto a mangiare con una critica culinaria, i problemi tra i dipendenti dal retrobottega alla griglia, e infine il soffocamento di una cliente allergica ai crostacei. Barantini allunga il proprio corto, da cui è nata l’idea, e srotola la tensione dell’uomo comune costretto, suo malgrado, a rimanere ad alti livelli e ritmi di lavoro nonostante una forte dipendenza da alcol e cocaina, moglie in fuga e figli da incontrare. La traiettoria e il movimento della macchina da presa (soprattutto le pause in cui rimane fissa per permettere di ricostruire il set successivo fuori vista mentre una parte di cast recita) diventano l’elemento cruciale di una messa in scena che sa risaltare il peso delle responsabilità personali e professionali del protagonista, nonché una tensione espressiva rinvigorita da un set vagamente rabbuiato e angusto. Al centro, sempre e comunque, questa nuova impennata settoriale, di una cucina vista sempre meno alla Tognazzi/Gassman ne I nuovi mostri, e sempre più dependance culturale di un episodio tutto chiacchiere, distintivo e gerarchie militari alla Masterchef.