Mentre i riflettori sono puntati sul Qatargate, la Ue tenta di chiudere la tormentata partita della riforma del sistema di scambio delle quote di emissione di Co2. Quella che dovrebbe consentire al Vecchio continente di centrare i suoi obiettivi di contrasto al cambiamento climatico e su cui a giugno l’Europarlamento si era spaccato. All’alba di martedì i negoziatori dell’Eurocamera e del Consiglio in cui siedono gli Stati membri hanno raggiunto un’intesa preliminare sull’atteso sviluppo dell’Emission trading system (Ets): la carbon tax alla frontiera destinata a colpire acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, elettricità e idrogeno importati da Paesi con standard ambientali più permissivi. “Una prima mondiale” di cui “possiamo andare fieri”, ha commentato il presidente della commissione Ambiente dell’Europarlamento Pascal Canfin (Renew). “Garantiremo un trattamento equo tra le nostre aziende, che pagano un prezzo del carbonio in Europa, e i loro concorrenti stranieri, che non lo fanno, facendo di più per il clima proteggendo le nostre aziende e i posti di lavoro”. Ma come sempre il diavolo sta nei dettagli.
E sui dettagli è ancora tutto da decidere. Il 16 e 17 dicembre andrà in scena una maratona negoziale a tre (con la Commissione) per trovare un accordo su diversi punti caldi tra cui quello più controverso: quando verranno azzerati i permessi gratuiti concessi finora alle industrie responsabili di gran parte delle emissioni di gas serra, dalle acciaierie ai cementifici ai produttori di fertilizzanti?
Stando a un recente report del Wwf, negli ultimi nove le multinazionali corresponsabili della crisi climatica hanno ricevuto dall’Unione europea in questa forma la bellezza di 98,5 miliardi di euro. Il regalo è sempre stato giustificato con il teorico rischio che le aziende inquinanti, se costrette a pagare per emettere, perdessero competitività rispetto ai concorrenti extra europei e fossero indotte a delocalizzare. L’introduzione della “tassa alla frontiera”, che renderà più costosi e dunque meno convenienti l’acciaio e il cemento prodotti per esempio in Cina o Turchia, come evidente elimina quel rischio. Per questo Valdis Dombrovskis, vice di Ursula von der Leyen, aveva annunciato che in contemporanea della sua entrata in vigore l’industria Ue avrebbe dovuto rinunciare al cadeaux e piegarsi al principio che “chi inquina paga”. Anche perché altrimenti la nuova misura non sarebbe compatibile con le regole del Wto sulla non discriminazione tra produttori stranieri e domestici: se i primi versano la tassa, i secondi devono sostenere un esborso equivalente per le quote.
L’iter finora è stato molto accidentato. Lo scorso 22 giugno il Parlamento Ue, a valle di mesi di pressioni dei lobbysti e dopo una clamorosa spaccatura della “maggioranza Ursula”, ha votato una modifica al pacchetto Fit for 55 (proposto dalla Commissione nell’estate 2021) in base alla quale i permessi gratuiti sarebbero stati dimezzati entro il 2030 ed eliminati solo nel 2032. Secondo la ong Carbon Market Watch equivale a distribuire altri 400 miliardi di quote gratis “mentre il Fondo sociale per il clima”, quello destinato a supportare durante la transizione ecologica le famiglie vulnerabili, le microimprese e gli utilizzatori di mezzi di trasporto inquinanti, “dovrebbe ricevere al massimo 72 miliardi di qui al 2030”. Il legame è diretto perché l’altra faccia delle quote gratis è che gli Stati rinunciano al gettito delle aste dei permessi, che dovrebbe essere reinvestito in politiche per il clima.
L’intesa preliminare appena trovata sulla carbon tax ne prevede l’entrata in vigore graduale dal 2023, all’inizio con l’obbligo di mera rendicontazione (cioè senza effettivi pagamenti) e poi con la progressiva sostituzione dei certificati di emissione a costo zero. Ma quanto progressiva? Questo è ancora da decidere perché bisogna attendere gli sviluppi dei negoziati sugli altri dossier collegati, in particolare la revisione dell’Ets e il nuovo Ets 2 per trasporti e riscaldamento, dopo che nelle scorse settimane è arrivato l’ok all’estensione delle quote al comparto navale e al settore dell’aviazione civile (che non avrà più quote gratis dal 2026). L’esito sarà cruciale nel determinare se l’Europa raggiugerà l’obiettivo di ridurre le sue emissioni nette di gas serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
A sorpresa – visto che le destre hanno votato contro il compromesso di fine giugno – il ministro delle Imprese Adolfo Urso ha intanto espresso soddisfazione per l’accordo preliminare, dicendo che “va nella direzione da noi indicata ci permette di individuare una strada per tutelare meglio il prodotto siderurgico realizzato in Europa e quindi anche gli stabilimenti siderurgici italiani a Taranto a Piombino“.