I negoziati per il trattato globale sulla plastica spaccano anche l’Europa. E l’Italia è tra i Paesi meno ambiziosi. Al primo dei cinque incontri, che l’Intergovernmental Negotiating Committee dell’Onu organizzerà nei prossimi due anni per raggiungere un accordo, hanno partecipato oltre 2.300 delegati provenienti da 160 Paesi. Si è chiuso in Uruguay, a Punta del Este, con l’immagine chiara di uno scacchiere. Da un lato il blocco delle potenze, tra cui Usa, Cina, l’Arabia Saudita dell’Aramco che proprio in Cina costruirà una raffineria integrata e un complesso petrolchimico, schierato contro un trattato che sia legalmente vincolante e a favore di obiettivi nazionali e non globali. Secondo questa visione, in pratica, ogni Paese dovrebbe decidere i propri obiettivi con i rischio di adottare lo stesso metodo messo nero su bianco dall’Accordo di Parigi e che ha sempre rallentato anche i negoziati sul clima. Dall’altro lato, ci sono i Paesi più ambiziosi, che fanno parte della High ambition coalition to end plastic pollution. C’è anche l’Unione europea, ma non tutti i 27 Paesi membri hanno aderito ufficialmente alla coalizione. Ci sono, ad esempio, Francia, Germania, Belgio, Portogallo, Austria, Danimarca, Finlandia, ma mancano all’appello Italia, Spagna, Grecia, Romania, Ungheria e altri Paesi dell’Europa dell’Est. La Francia, tra l’altro, si è offerta di ospitare il secondo incontro, che dovrebbe svolgersi a Parigi, a maggio 2023, quando si entrerà nel vivo di alcune discussioni lasciate a metà nel corso del primo round negoziale.
Quel voto dell’Unione europea – Non è un caso se uno dei nodi da sciogliere a maggio prossimo sarà proprio quello sul Regolamento di procedura (concordato sei mesi fa in Senegal, ma non ancora adottato) e che determinerà come gli Stati e le organizzazioni possono impegnarsi. Come ha fatto notare il direttore esecutivo di Zero Waste Europe, Joan Marc Simon, che ha partecipato al primo Comitato negoziale intergovernativo delle Nazioni Unite, più che di sostanza “si è parlato di forma e funzionamento del trattato”. Sarà cruciale per l’Unione europea, perché è in quel documento che dovrà essere stabilito se gli Stati membri avranno ciascuno un voto o se l’Unione europea esprimerà la sua posizione in blocco, come suggerito da Arabia Saudita, che ha chiesto di ridiscutere la Regola 37 sul diritto di voto della bozza di regolamento, ricevendo l’appoggio di Egitto, Qatar e Bahrein. Nel primo caso ogni Paese si assumerà le sue responsabilità senza frenare l’ambizione degli altri, nel secondo caso alcuni Paesi membri, per esempio quelli più dipendenti dai combustibili fossili e legati al settore petrolchimico, potrebbero impedire il raggiungimento del consenso unanime e bloccare l’intera Unione su decisioni cruciali.
I temi al centro del negoziato – Secondo la High ambition coalition to end plastic pollution il trattato dovrebbe occuparsi dell’intero ciclo di vita della plastica, compreso il suo impatto e le implicazioni su salute e diritti umani. Sul lato opposto dello scacchiere, i Paesi maggiori produttori di petrolio e di plastica, dunque con forti pressioni dal settore petrolchimico. Sono tra questi “Russia, Arabia Saudita e Stati del Golfo, Iran, Stati Uniti, Cina, Egitto e Giappone”, che spingono perché il trattato si concentri soprattutto sul riciclo. Rispetto ai diritti umani, il vertice ha visto una significativa presenza di popolazioni indigene e comunità colpite direttamente dall’industria petrolchimica, come quella dei raccoglitori di rifiuti, che hanno fatto sentire la propria voce e hanno portato al lancio, da parte di Kenya e Sudafrica, della Just Transition Initiative affinché si ponga fine all’inquinamento da plastica nel modo più equo possibile. I Paesi più ambiziosi, poi, chiedono un tetto a produzione e utilizzo alla plastica e il divieto delle sostanze chimiche tossiche ad essa associate. E se la Nuova Zelanda invoca interventi drastici sul fronte dei combustibili fossili, sottolineando il ruolo dei sussidi ai produttori, l’Unione europea ha chiesto che il trattato contenga obblighi precisi sui criteri di progettazione, eliminazione graduale delle plastiche inutili, evitabili e problematiche e target rispetto a quelle riutilizzabili, riparabili e riciclabili. Ha suscitato molto interesse, poi, la presa di posizione di due multinazionali come Nestle e Unilever, tra quelle che immettono più plastica sul mercato a livello globale, ma che hanno chiesto un limite alla produzione di plastica vergine e l’eliminazione di quella difficile da riciclare, sottolineando la necessità di un trattato globale basato su obblighi vincolanti.
Chi guida l’ambizione – Al di fuori dell’Unione europea, ci sono una serie di Paesi in prima fila per un trattato globale e vincolante sulla plastica che metta fine all’inquinamento entro il 2040, a iniziare da Norvegia e Ruanda, che presiedono l’High ambition coalition to end plastic pollution di cui ad oggi fanno parte oltre sessanta nazioni. Ci sono anche altri Paesi africani come Senegal, Mali, Burkina Faso e Ghana e insulari come Capo Verde, Isole Cook, Seychelles. Sono quelli, spiega Joan Marc Simon “che sopportano il peso maggiore dell’inquinamento da plastica (come gli Stati del Pacifico, la maggior parte dell’Africa e dell’America Latina) o hanno una visione diversa del ruolo della plastica nell’economia” rispetto a quella delle potenze contrarie a un trattato vincolante. Va detto che, anche all’interno di questa coalizione, ci sono Paesi con politiche evidentemente in contrasto con la lotta all’inquinamento da plastica e, più in generale, al cambiamento climatico, per esempio per il loro sostegno ai combustibili fossili. Tra questi, gli Emirati Arabi Uniti, ma anche l’Australia che sta provando a voltare pagina con il nuovo governo del primo ministro laburista Anthony Albanese, archiviata l’era dell’ex premier negazionista Scott Morrison.