Maxi operazione dei carabinieri e delle procure calabresi e lombarde. Le intercettazioni certificano il “passaggio di mano” del clan un tempo guidato dal patriarca Umberto Bellocco, deceduto poche settimane fa, al nipote soprannominato "Chiacchiera" che amministrava il clan da remoto: recluso nel carcere di Lanciano poteva disporre di micro telefonini. Dall'inchiesta emergono anche i rapporti della cosca con gli Spada di Ostia
“Che non rompano i coglioni ai cristiani che stanno vicino a me, la devono finire ora, perché io posso stare tranquillo fino ad un punto”. Parla da boss navigato Umberto Bellocco, il 39enne che ha preso le redini della famiglia mafiosa di Rosarno. Le intercettazioni dell’inchiesta “Blu notte” certificano il “passaggio di mano” del clan un tempo guidato dal patriarca Umberto Bellocco detto “Assi i mazzi”, deceduto poche settimane fa, il 22 ottobre 2022.
La storia dei Bellocco non cambia. Se nel 1981 l’anziano boss diede il suo contributo alla nascita della Sacra Corona Unita pugliese all’interno del carcere di Bari, il nipote omonimo conosciuto con il soprannome di “Chiacchiera” dal carcere di Lanciano usa i microcellulari per comunicare con gli affiliati e con i detenuti della cosca rinchiusi in altre case circondariali. L’operazione dei carabinieri è scattata stamattina all’alba. Su richiesta del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e dei pm Francesco Ponzetta e Andrea Sodani, la gip Vincenza Bellini ha arrestato 65 persone, di cui 47 in carcere, 16 ai domiciliari e 2 all’obbligo di dimora.
Il maxi blitz e il nuovo boss – Complessivamente sono 93 gli indagati dalla Dda di Reggio Calabria per reati che vanno dall’associazione di tipo mafioso, al concorso esterno passando per il porto e la detenzione di armi comuni e da guerra, le estorsioni, l’usura e i danneggiamenti aggravati dalle finalità mafiose. Ma anche riciclaggio, autoriciclaggio e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. L’indagine ha fotografato gli interessi della consorteria mafiosa della Piana ricostruendo le dinamiche interne ai Bellocco che hanno allungato i loro tentacoli in molte zone del Paese potendo contare su importanti ramificazioni all’estero. Oltre ai 65 arresti in Calabria per l’operazione “Blu notte”, ci sono state altre 13 misure cautelari emesse dal gip su richiesta della Procura di Brescia che, nell’ambito dell’inchiesta “Ritorno”, ha sequestrato beni e disponibilità finanziarie per oltre 4 milioni di euro. Il grosso dell’attività investigativa dei carabinieri, però, si è svolto in Calabria dove il boss Umberto Bellocco, principale indagato, ha dimostrato di avere la completa gestione del sodalizio e il conseguente controllo di tutti i consociati. Il giovane capocosca, stando alla ricostruzione dei pm, è un leader temuto al cospetto del quale le persone ammesse a confrontarsi con lui hanno esternato sempre atteggiamenti ossequiosi ed accondiscendenti, dimostrando il loro assoggettamento.
Il cellulare nella cella di Bellocco – “Quello che ci porta queste cose, dice pure se gliene mettiamo due piccoli, ci fa entrare anche quelli, non è che ora sta a guardare i due piccolini”. “li puoi prendere un paio, però con i tasti di gomma fra, perché li usa per messaggi lui, perché i tasti di plastica si rompono subito”. Sono i cellulari che dovevano arrivare in carcere a Lanciano per il boss Umberto Bellocco. Dopo la sua condanna per associazione mafiosa, diventata definita nel 2014, Bellocco non ha mai smesso di comunicare con l’esterno “mediante una serie di telefoni cellulari e schede telefoniche – scrive il gip nell’ordinanza – a lui forniti grazie alla collaborazione di alcuni soggetti sia interni che esterni all’istituto”.
“I tasti di plastica si rompono” – “Pure questo sta partendo. Non va bene. Alcuni tasti non vanno”. È Umberto Bellocco che parla con la nipote e si lamenta dei cellulari che si rompono: “Non vanno bene cavolo. È nuovo”. E al cognato gli da indicazioni per il prossimo: “Guarda sito Nokia e vedi 3310 mini telefono. Vedi se ti dice quanti cm (centimetri, ndr) e fa pure le foto vedi”. Dal carcere abruzzese, Bellocco gestiva “da remoto” la cosca. Ha partecipato, infatti, ai summit mafiosi, potendo espletare tutte quelle funzioni che gli sono state riconosciute in ragione del ruolo di capocosca. La Dda ha accertato, tra le altre cose, anche le responsabilità dei pregiudicati che hanno costituito la filiera necessaria a rifornire il Bellocco dei microtelefoni cellulari, delle sim-card e delle relative ricariche. I telefoni non entravano solo a Lanciano ma anche nel carcere di Saluzzo, in provincia di Cuneo, dove era detenuto Francesco Nocera, altro esponente di vertice della cosca Bellocco che, da lì, ha concesso il suo benestare per l’affiliazione di due soggetti arrestati stamattina: Antonio Restuccia e Rocco Stilo il cui ingresso nella ‘ndrangheta è avvenuto nonostante alcune frizioni che minavano gli equilibri interni.
I rapporti con gli Spada di Ostia – Sempre all’interno del circuito penitenziario, la cosca Bellocco ha stretto un’alleanza con il clan Spada di Ostia. Monitorando i movimenti di “Chiacchiera” nel carcere di Lanciano, i carabinieri hanno ricostruito come “Umbertino” sia entrato in contatto con Ramy Serour, l’esponente degli Spada che, una volta rimesso in libertà, si è messo a disposizione del boss calabrese. Anche lui, assieme al fratello Sami Serour è stato arrestato dalla Dda di Reggio Calabria perché, dopo aver curato l’acquisto dei telefoni cellulari destinati a Bellocco, li ha consegnati a un altro detenuto in semilibertà che li ha condotti all’interno.
Tornato a Ostia, Ramy Serour il 26 settembre 2019 parla con un soggetto e gli spiega chi sono i Bellocco e come l’hanno trattato in carcere: “La verità fra’, la verità! Oggi io sono stato invitato ad un tavolo, eravamo diciassette persone, tutti… la ‘ndrangheta!”. Nella casa circondariale di Lanciano, in sostanza, comandava “Umbertino”. “Queste sono persone serie. – è sempre Serour che parla – E pensa te, questo qua mangia… con me”. L’accordo con gli Spada ha riguardato pure i traffici di cocaina effettuati dalla Calabria verso il litorale romano e la risoluzione di situazioni conflittuali tra il clan laziale e alcuni calabresi titolari di attività commerciali nelle aree urbane di Ostia ed Anzio. “Quando gli ho detto il nome dell’amico tuo – si sente in un’intercettazione – fra’ ti dico … si stava a mettere, no bianco…di più! Mi ha detto ‘ma davvero lo conosci?’. Gli ho detto come no? Stava proprio in cella con il compagno mio, sono come fratelli! Ha detto ‘Come no? Io sono amico del papà, sono amico suo…’ mi ha detto ‘mandagli i saluti”.
Nel corso delle indagini è emerso, inoltre, il tentativo di vendita di una consistente partita di cocaina da parte del clan Bellocco in favore di narcotrafficanti di Ostia esponenti degli Spada. Per conto dei calabresi, a condurre le trattative con il clan romano sarebbe stato Gioacchino Bonarrigo, l’ex latitante che nel 2017 era stato catturato ad Amsterdam. Anche per lui stamattina è scattato l’arresto perché, secondo i pm, l’uomo si sarebbe recato più volte a Ostia per incontrare esponenti degli Spada che voleva rifornire con la droga importata dall’estero.
La gestione dei boschi – Uno dei settori strategici dei Bellocco di Rosarno era la spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. Non è un caso che su richiesta della Dda, il gip ha sequestrato la ditta individuale di Michelangelo Bellocco, finito ai domiciliari per concorso esterno mentre suo padre, Francesco Antonio Bellocco, è stato portato in carcere per associazione. Emblematica a proposito è un’intercettazione del 3 novembre 2019. A parlare è Francesco Benito Palaia, arrestato stamattina dai carabinieri perché ritenuto uno degli uomini di fiducia di suo cognato, il boss Umberto Bellocco. “I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa”. Il riferimento è alla competenza della famiglia mafiosa di Rosarno che, con la cosca Lamari, aveva il predominio su tutte le aree montane ricomprese tra il Comune di Laureana di Borrello e quello di Giffone. Questo in forza degli accordi stretti circa venti anni prima e che sono stati messi in discussione dalla famiglia Larosa provocando pericolose frizioni tra la cosca di Giffone e i Bellocco.
La telefonata dal carcere e la guerra sfiorata – “Ti sparo diciannove botte di pistola. Ti ammazzo stamattina”. Sono le parole sempre di Francesco Benito Palaia. Le tensioni sono state risolte durante un summit svoltosi il 6 novembre 2019 all’interno della “Palfruit”, un’azienda agricola di Rosarno dove il cognato del boss, “circondato da un manipolo di giovani sodali armati, giungeva ad un passo dall’uccidere a colpi d’arma da fuoco Massimo Larosa”. Stando a quando scrive il gip nell’ordinanza, Palaia è stato “bloccato in extremis da Massimo Lamari, anch’egli presente al delicato incontro in qualità di esponente apicale pro-tempore della cosca Lamari di Laureana di Borrello”. A risolvere tutto, però, alla fine è stato Umberto Bellocco. Quando la situazione sembrava destinata a degenerare nello scontro armato, infatti, il boss ha telefonato dal carcere ed è intervenuto alla riunione di ‘ndrangheta scongiurando così un potenziale eccidio. “Ma tu chi cazzo sei? – è il resoconto del summit fatto da un affiliato che ha partecipato – gli ho detto, ma tu chi sei? gli ho detto, gli ho detto le cose restano come a vent’anni fa e i cristiani non nulla di cui parlare… là lui ha cominciato a fare ‘pariggi’ (a creare problemi, ndr) la telefonata che è arrivata… e gli ho detto non ti preoccupare… chiudi il telefono, gli ho detto io, e stai tranquillo”.
La cassa comune gestita dalla madre del boss – Dagli atti dell’inchiesta “Blu notte” emerge come i Bellocco abbiano attuato un’opprimente pressione sulle attività economiche operanti nella zona di Rosarno. Le indagini dei carabinieri, infatti, hanno fatto luce sulle richieste estorsive del clan nei confronti dei titolari di molte attività economiche. Imposizioni che perduravano da anni e che servivano a finanziare le trasferte dei familiari dei detenuti che dovevano recarsi ai colloqui in carcere. Uno dei sistemi per far sentire la presenza degli esponenti mafiosi nella zona era la cosiddetta “guardiania”, una sorta di controllo diffuso delle campagne, attuato attraverso persone incaricate di “farsi vedere”, esigendo pagamenti che variavano in base all’estensione del fondo posseduto. Tutti dovevano sottostare e ai quali dovevano sottostare tutti, anche se formalmente affiliati alla ‘ndrangheta. “La guardiania è una cosa, la malandrineria è un’altra”. In realtà le parole di Francesco Benito Palaia sono smentite dai fatti. Chi non pagava ai boss, era costretto a cambiare atteggiamento. I soggetti più riluttanti ad assecondare le pretese dei Bellocco, infatti, subivano furti e danneggiamenti a causa dei quali gli veniva imposto di rivolgersi ai rappresentanti della cosca che, così, agivano in surroga agli organi dello Stato. I soldi finivano nella “cassa comune” che era custodita da una donna destinataria, anche lei, dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Dda di Reggio Calabria. Si tratta di Maria Serafina Nocera, madre del boss Umberto Bellocco che, secondo gli inquirenti, era deputata a gestire in maniera oculata i soldi del clan che dovevano servire per il sostentamento dei detenuti e per l’attuazione del programma criminale del figlio.
Le minacce al destista di Cosenza – Nel mirino della cosca è finito anche un medico odontoiatra di Cosenza. “È un amico nostro”. La verità è che il professionista subiva forti pressioni da Francesco Benito Palaia, il cognato del boss Umberto Bellocco, che lo ha costretto a rilasciare certificazioni che attestavano false patologie. “Mi serve un certificato. – dice Palaia al medico – Per la stessa cosa, solo che l’autorizzazione è permanente”. E alle proteste del dottore (“Che cazzo vuol dire permanente?”), il cognato del boss replica: “Permanente, fino a che non mi finisci il lavoro, io sono sempre seduto là sulla sedia tua. Mi devi scrivere i giorni da quando parte e poi la relazione l’ha fatta l’avvocato”. In realtà Palaia non andava dal dentista e quei certificati servivano all’indagato per ottenere permessi medici spendibili come alibi che gli avrebbero consentito di allontanarsi dall’abitazione, dove era sottoposto agli arresti domiciliari, ed effettuare incontri con altri esponenti mafiosi. Il medico non aveva alternative: “Ti devo mandare qualche altro messaggio di minaccia o ti devo mandare qualcuno allo studio?”