di Annalisa Rosiello * e Domenico Tambasco **

Lo stress lavoro-correlato è un fenomeno molto diffuso negli ambienti di lavoro e contribuisce – secondo una ricerca recentemente segnalata anche su questo blog – a circa la metà delle assenze dal lavoro. La vastità del fenomeno è dal nostro punto di vista legata anche al fatto che, nella categoria dello stress lavoro-correlato, si può includere – a ragion veduta – lo stato di disagio psico-fisico riconducibile a ogni carenza dell’organizzazione del lavoro inerente sia la prestazione lavorativa (sul piano quantitativo e qualitativo) sia ogni disfunzionalità che coinvolge le relazioni interpersonali.

Lo stress lavorativo è quindi senz’altro una categoria che possiamo definire “polifunzionale”, ovvero un concetto che – sul piano dell’impatto sulla “integrità fisica” e, soprattutto, sulla “personalità morale” del lavoratore (art. 2087 c.c.) – abbraccia tutte le disfunzionalità organizzative, ancorché non espressamente codificate (come nel caso delle persecuzioni lavorative quali il mobbing e lo straining).

L’impatto pratico di questo approccio è rilevantissimo. Infatti, a prescindere dalle varie definizioni dei diversi fenomeni, laddove ci si trovi in presenza di situazioni che, per qualsiasi motivo, siano oggettivamente lesive della dignità, della libertà e della salute della lavoratrice o del lavoratore, è possibile chiedere la cessazione delle condotte, la rimozione dei loro effetti e il risarcimento dei danni essendo del tutto irrilevante l’intenzionalità degli atti (Cass. 15 novembre 2022, n° 33639).

Veniamo ad alcuni esempi pratici: particolarmente significativo è il superlavoro, ovvero l’esorbitanza rispetto alla “normale tollerabilità” qualitativa e quantitativa della prestazione di lavoro produttivo di un danno da stress per usura psico-fisica passibile di risarcimento.

Oppure, cambiando prospettiva, si pensi ai casi di ambiente di lavoro insalubre o insicuro per ragioni legate al clima e/o all’ambiente fisico (eccessivamente caldo, freddo, umido, secco, buio, rumoroso, ecc.) o alla pericolosità vissuta/percepita ma non adeguatamente valutata e considerata dal datore di lavoro (rischio rapine, estorsioni, minacce, ecc.). Queste sono situazioni oggettivamente stressogene, tanto più gravi laddove chi ha il dovere di intervenire a tutela e in prevenzione – ovvero il datore di lavoro – non lo fa.

O, ancora, si pensi ai casi – che investono maggiormente le relazioni interpersonali – in cui il datore di lavoro non viene incontro – a condizioni di ragionevolezza – alle esigenze di conciliazione delle lavoratrici e dei lavoratori (genitori di figli in età scolare, o con esigenze particolari, o caregiver). Queste situazioni ingenerano particolare stress, patimento e sofferenza nelle persone, che si sentono “intrappolate” tra l’impossibilità (molto frequente) di lasciare il lavoro e i sensi di colpa o inadeguatezza legati al fatto di non riuscire ad accudire adeguatamente i figli o i familiari.

Questa condizione riguarda principalmente le donne; si ricorda che l’articolo 28 del testo unico salute e sicurezza prevede un elenco specifico di situazioni o soggetti esposti a rischi particolari legati a differenze di genere (inclusa la gravidanza e il puerperio), l’età, la provenienza da altri paesi e la specifica tipologia contrattuale. In sostanza, la prevenzione e il contrasto dei rischi sulla salute e sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici, incluso il rischio stress lavoro-correlato – non è da declinarsi (solo) su un soggetto “neutro” che di norma coincide con il tipo “maschio-quarantenne-in salute e di nazionalità italiana”, ma deve tenere conto di tutte le condizioni di fragilità a livello familiare, personale, socio-culturale che possono mettere alcune categorie di soggetti in condizioni di particolare svantaggio o rischio rispetto ad altre.

Si pensi, sempre rimanendo sulle “differenze di genere”, alla maggiore esposizione delle donne al rischio di molestie sessuali sul lavoro e di stalking occupazionale. Queste situazioni creano un patimento enorme in chi le vive. Un forte stress legato al rischio percepito di compromettere la propria posizione lavorativa associata all’ansia di incontrare sul lavoro l’autore delle molestie e di continuare a subirle. Situazioni che purtroppo comportano spesso anche un allontanamento dal lavoro (temporaneo o permanente) delle vittime, soprattutto a causa dell’inadeguatezza delle soluzioni proposte dalle aziende.

In conclusione, questa prospettiva “unitaria” dello stress lavorativo consente di approcciare e offrire molteplici soluzioni pratiche, anche ai casi – ad esempio – di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni o licenziamento. Da un lato, infatti, numerosi sono i casi di dimissioni strettamente connesse al contesto ambientale caratterizzato da forte stress: queste dimissioni potrebbero essere passibili di annullamento ai sensi dell’articolo 428 c.c.

Dall’altro lato, si pensi al licenziamento per “giusta causa” del dipendente che abbia assunto comportamenti “scompostamente reattivi” in un quadro peraltro fortemente stressante quale quello esemplificato in questo breve scritto. Senza cadere nel giustificazionismo delle condotte più gravi, tuttavia, alcuni comportamenti “reattivi” del lavoratore, ben potrebbero trovare un’effettiva – e più giusta – spiegazione nelle condizioni stressogene a cui potrebbero essere sottoposti alcuni dipendenti, soprattutto nei casi di protratta inerzia datoriale rispetto alle richieste di adeguamento dell’ambiente di lavoro.

*Avvocata giuslavorista, curatrice di questo blog

**Avvocato giuslavorista, da anni si occupa di conflittualità lavorativa anche come redattore di diversi ddl in materia presentati nella scorsa legislatura. Autore di pubblicazioni sul tema della violenza e delle molestie lavorative, tra cui “Il lavoro Molesto”, 2021, scritto in collaborazione con Harald Ege

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