Nove dipendenti per controllare 12.445 società di lobby. E un numero imprecisato, ma enorme, di persone che si muovono liberamente nel Parlamento Europeo. Solo la ong della Bonino finita sotto inchiesta ne ha accreditate 11, il doppio di Google, il triplo di Microsoft. Chi controlla i lobbisti? È uno scandalo a due facce quello che ha investito il Parlamento Europeo, unico organismo elettivo dell’Unione. L’inchiesta belga si allarga ma il cuore della questione resta sempre a Bruxelles, dove il Qatar-Gate ha rivelato quanto sia permeabile alle influenze esterne il tempio della democrazia che legifera sul destino di 450 milioni di cittadini. Il cuore è l’assetto e l’insieme degli strumenti che Parlamento, Consiglio e Commissione si sono dati per difendere l’etica dell’istituzione e la libera determinazione degli eletti. Fa bella mostra di sé, su tutti, il “Registro per la trasparenza”, consultabile anche online. Ma la trasparenza è solo sulla carta. E nessuno controlla chi siano e cosa facciano davvero i “portatori di intessi” che possono spingere nel burrone un pezzo della nostra democrazia.
Il “Registro per la trasparenza” fu annunciato nel 2011 come “strumento di controllo pubblico dell’attività dei lobbisti”. Nel 2021, in occasione del decennale, è stato rafforzato da accordi tra le tre istituzioni ma nel frattempo il numero degli operatori accreditati è letteralmente esploso: il primo anno erano 4mila, negli ultimi cinque sono aumentati dell’8% e oggi sono ben 12.445, vale a dire 19 soggetti per ogni politico. Senza contare che il soggetto registrato può accreditare a sua volta decine di delegati dando loro accesso libero al Parlamento europeo: la ong fondata dalla Bonino nel mirino dell’inchiesta “No peace without justice”, il cui segretario Niccolò Figà-Talamanca è tra i fermati, da sola NPWJ aveva accreditato ben 11 persone: il doppio di Google, il triplo di Microsoft. Dunque il numero reale dei lobbisti in carne e ossa è forse tre/quattro volte maggiore del numero dei soggetti accreditati.E chi li controlla più? Il personale deputato a questo compito, incardinato presso il presso il Segretariato, può contare su nove dipendenti soltanto, tre per ciascuna delle istituzioni comunitarie. Così che ciascuno dovrebbe vigilare su 1.382 enti, sindacati e imprese registrati.
Ragion per cui il “registro” è in realtà una semplice banca dati, un elenco come le pagine gialle, e il controllo che ne viene fatto si riduce gioco forza a una mera verifica di domande/requisiti. Si concentra dunque su aspetti formali anziché sostanziali. Lo conferma l’ultima Relazione sul funzionamento del Registro; 3.360 verifiche hanno portato alla radiazione del 30% di soggetti controllati, sempre per non rispondenza dei requisiti o mancato aggiornamento dei dati. Non si ha notizia, invece, di una sola espulsione per condotte non conformi agli “impegni etici” e di trasparenza che han dovuto sottoscrivere per essere abilitati a operare. L’impegno dunque c’è, ma solo sulla carta, e in quadro di regole ben lontano dal garantire il tracciamento di movimenti, incontri e interessi.
La stessa registrazione, a ben vedere, resta “su base volontaria”: solo dal 7 luglio scorso è diventata requisito obbligatorio per accedere al Parlamento europeo, cosa che può avvenire però su invito del parlamentare o accadere in qualunque altro posto a due passi dagli uffici. Dove anche un ex deputato può continuare ad aggirarsi liberamente, come dimostra il caso Panzeri: dopo tre mandati, terminati nel 2019, l’italiano finito al centro dell’indagine entrava e usciva liberamente grazie al “pass a vita” che permette di aggirare le stesse norme della Commissione, quelle secondo cui tutti i contatti devono passare sempre e solo per l’albo dei lobbisti. Della sua ong “Lotta all’impunità”, peraltro, nel registro non c’è traccia, diversamente da “No peace without justice” che risulta iscritta dal 2012. Entrambe hanno sede al civico 41 di Rue Ducale, a due passi dal Parlamento.
Non è più saldo l’altro capo del tavolo, dove si attovagliano gli eletti. Mentre i relatori e i presidenti di commissione sono tenuti a pubblicare sul registro online le informazioni relative alle riunioni programmate con i “rappresentanti di interessi”, questo non vale per 705 deputati, compresi i i vicepresidenti di commissione, i presidenti di delegazione o i coordinatori: costoro infatti “non hanno alcun obbligo giuridico di pubblicare i dettagli delle loro riunioni, ma possono farlo su base volontaria”. Questo perché i deputati per primi hanno respinto ogni forma di obbligo nei loro confronti sostenendo che dichiarare chi incontrano e come svolgono il loro mandato sarebbe contrario alla libertà del mandato che deriva loro dagli elettori. Sfuggono poi una pletora di istituzioni collegate all’Europa. Il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione hanno quest’anno hanno aperto ad altre istituzioni, organi, uffici e agenzie Ue, nonché agli Stati membri “in relazione alle loro rappresentanze permanenti presso l’Ue”, con anche la possibilità di notificare ai detentori del registro “ulteriori condizioni per l’accesso o misure complementari di trasparenza che intendessero adottare”: nel 2021 nessuna notifica di questo tipo è stata comunicata ai detentori del libro mastro delle lobby.