PADOVA – Il prete dei migranti e dei richiedenti asilo, don Luca Favarin, che gestisce un centro di accoglienza e si occupa del ristorante equo solidale Strada Facendo, entra in conflitto con la diocesi di Padova e si dichiara pronto ad abbandonare il sacerdozio. La curia replica accusandolo di interessi privati e scarsa trasparenza. In una delle diocesi più grandi d’Italia scoppia il caso, epilogo di anni di turbolenze finora rimaste latenti.
Il sacerdote ha scritto un post su Facebook che comincia parafrasando una canzone di Fabrizio De Andrè: “Il coraggio di togliere il disturbo? Eccolo”. Don Luca si fa fotografare davanti al portone del palazzo del vescovo monsignor Claudio Cipolla. Ordinato sacerdote nel 1988, è laureato in filosofia e scienze della formazione e ha dato vita alla onlus Percorso vita che si occupa di immigrati, emarginati, poveri e prostitute. Alcuni anni fa criticò l’ipocrisia dei credenti che preparavano il presepe per Natale, ma non si dimostravano accoglienti nei confronti di chi arriva da altri Paesi. “Io mi sono davvero stancato. – scrive ora – Dopo 20 anni in cui accogliamo disgraziati di giorno e di notte, ragazzetti che arrivano nelle nostre case con la pancia piena di ovuli di droga o con la faccia dilaniata dalle risse di strada io non voglio giocare all’eroe di turno o al profetuncolo emarginato dall’istituzione ecclesiastica. Mi si dice: ‘Quello che fai crea disagio alla diocesi’. No, cara istituzione ecclesiastica. Quello che facciamo è creare inclusione, solidarietà, accoglienza, umanità, e anche qualità e cultura. Lo chiamate disagio? È considerato incompatibile? Ne prendo atto, ma non rinuncio a fare quello che stiamo facendo: la cosa più bella della vita”.
Il messaggio è una staffilata e una replica ad accuse che don Favarin ha probabilmente ricevuto da parte dell’istituzione. Sintetizza così quello che gli è stato detto: “’Quello che fai è bello, ma non c’entra niente con noi. Lo fai a titolo personale. Non lo fai a nome della Chiesa’. Ne sono consapevole. Ma sono passati i tempi lunghissimi in cui tacere e soccombere e portare pazienza. Ne traggo le dirette conseguenze e da persona che sta in piedi me ne vado per la mia strada. Credo nell’inclusione e questo significa il diritto di amarsi e vedere pubblicamente riconosciuto il proprio amore anche per le persone dello stesso sesso. Credo nei diritti delle persone indipendentemente dai loro orientamenti sessuali o dai loro credi. Credo fermamente in una legge sul diritto del fine vita. Questo va totalmente contro il magistero ufficiale della Chiesa e io, per correttezza e integrità, non posso esserne portavoce”.
Finora, scrive, ha avuto “il coraggio di resistere”, mentre “adesso è il tempo di interrompere un legame quando esso diventa talmente stretto da soffocare”. La conclusione? “Parliamo lingue diverse e diamo priorità a cose diverse, siamo da troppo tempo su mondi radicalmente diversi: con infinita ed estrema serenità e gioia continuerò domani, come ieri, ad accogliere nelle nostre comunità i ragazzetti che sono sulla strada vittime della violenza e dello sfruttamento, in nome di Dio e dell’umanità”.
La replica della Curia vescovile è molto severa e adombra interessi economici da parte di don Favarin nella gestione della comunità. “Pur riconoscendo lo spirito umanitario e solidale che anima l’operato di don Luca Favarin, da parte sua non si è trovata condivisione di metodo. Pertanto la Diocesi non può essere coinvolta nelle sue attività, che vengono ad assumere carattere imprenditoriale (il diritto canonico prevede che i chierici non possano esercitare attività commerciale se non con licenza della legittima autorità ecclesiastica). Don Favarin, rimanendo sulle sue posizioni e su una gestione personale del suo operato anche in campo sociale, è arrivato alla conclusione di proseguire la sua attività come privato cittadino. La Diocesi ne prende atto”.