di Luca Battani
Gentile redazione del Fatto Quotidiano online,
Approfitto di questo spazio per raccontarvi la mia ultima esperienza lavorativa, la quale mi ha fornito diversi spunti di riflessione in merito al tema della disoccupazione giovanile e sulla tipologia di contratti che tuttora regola il mercato del lavoro, in particolare a partire dalla riforma Poletti e dal Jobs Act implementati dal governo Renzi qualche anno fa.
Mi chiamo Luca, ho 25 anni e sono uno studente-lavoratore prossimo al conseguimento della laurea magistrale. Recentemente ho trovato lavoro come magazziniere-scaffalista presso una nota catena operante nella Gdo (grande distribuzione organizzata) nella mia regione d’origine, la Sardegna. Pur non avendo grosse esperienze alle spalle, l’azienda mi ha proposto un contratto part-time di apprendistato della durata di 3 anni che non ho esitato ad accettare, sia perché le condizioni lavorative soddisfacevano le mie esigenze di studente-lavoratore, sia perché di questi tempi è difficile rifiutare un posto di lavoro “sicuro” con tutte le tutele del caso, anche a fronte delle scarse garanzie di trovare in futuro un impiego nel mio campo di studi senza dover per forza espatriare.
Ebbene, dopo neanche due mesi dall’assunzione mi viene notificato, tramite una mail pervenuta al direttore del punto vendita in cui prestavo servizio, di non aver superato il periodo di prova. Un modo come un altro per dirmi che non avevano più bisogno di me, senza sentire il bisogno di specificare i motivi. Fin qua nulla di insolito, data la clausola nel mio contratto che riserva all’azienda e al lavoratore il diritto di recedere dal contratto senza motivazione e senza preavviso qualora una delle due parti lo ritenga necessario durante il periodo di prova (la cui durata è stabilita dall’articolo 51 del Ccnl Commercio), che nel mio caso ammontava a 45 giorni di lavoro effettivo.
L’aspetto che mi ha fatto sorridere è stata la tempistica di tale provvedimento: dopo aver trascorso un periodo di malattia a seguito della diagnosi di un’epicondilite bilaterale acuta (volgarmente nota come “gomito del tennista”) per la quale il medico di base ha stabilito fosse meglio un breve periodo di riposo per evitare di aggravare la situazione, trascorsi appena 3 giorni dal mio rientro, l’azienda mi comunica di non aver superato il periodo di prova. Si sa, a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina e sono abbastanza sicuro del fatto che l’assenza per malattia abbia portato l’azienda a ritenere che io non fossi valido per tale lavoro, nonostante l’epicondilite sia un problema abbastanza comune e non inabilitante al lavoro se curata nel modo giusto.
La mia prima reazione, non avendo ricevuto alcun richiamo o appunto in merito al regolare svolgimento delle mie mansioni, è stata quella di chiedermi: ammalarsi è un diritto o una colpa? Sono pienamente consapevole del fatto che un’assenza per malattia nelle prime settimane lavorative non è il miglior biglietto da visita per un neoassunto, ma tale assenza è stata unicamente dovuta a una temporanea indisponibilità fisica debitamente documentata con delle visite mediche. Il fatto che l’azienda (così come il lavoratore) si riservi il diritto di non fornire alcuna spiegazione per l’interruzione del lavoro fa assumere dei connotati tragicomici alla vicenda, dato che non saprò mai se tale interruzione fosse dovuta a delle inadempienze in ambito lavorativo o al semplice fatto di essermi assentato per l’epicondilite.
Ed è qua che sorge il meccanismo perverso che regola questo tipo di rapporti lavorativi: quante persone, per paura di perdere un contratto di lavoro faticosamente ottenuto magari dopo anni di prestazioni lavorative irregolari o sottopagate, rinuncia a quelli che dovrebbero essere i propri diritti da lavoratore garantiti a norma di legge? A quanto pare tante. Sentite le opinioni di parenti amici, per cui “io a lavorare ci andavo anche con la febbre a 40, figurati per il gomito del tennista” o “beh, potevi fare le visite dopo il periodo di prova, così passi per un lavativo” o ancora “là fuori c’è tanta di quella gente che cerca un lavoro. Ricorda che nessuno è imprescindibile al giorno d’oggi”, l’unico ad avere torto in questa vicenda sono io.
Credo che queste ultime risposte, pervenute da lavoratori, siano la perfetta sintesi del paradosso che mi ha portato a sentirmi in colpa per essere andato dal mio medico di famiglia per capire cosa non andasse nelle mie braccia. Lavoratori che, forse inconsciamente, sono portatori sani di un morbo che affligge buona parte della classe lavoratrice italiana, soprattutto quella dei precari: l’idea che il datore di lavoro ci stia facendo un favore nel darci un impiego e, per ricambiare questo favore, i lavoratori devono essere disposti a dare il sangue per lui o chicchessia rinunciando financo ai diritti e alle tutele legalmente garantite.
A tal proposito penso valga la pena concludere con un ragionamento sui giovani e sul mondo del lavoro: troppo spesso veniamo accusati (talvolta giustamente, non lo nego) di essere dei fannulloni e di non voler lavorare, ma sono casi come questi che mi portano a pensare che in questo paese sia necessario un cambiamento culturale. L’aver voglia di lavorare non significa dover rinunciare ai diritti, non significa il non potersi ammalare per timore di essere lasciati a casa, la paura di chiedere un permesso, non significa, in sostanza, l’essere resi “schiavi” dalle aziende. Se alla prima occasione utile il nostro datore di lavoro ha il pretesto per lasciarci a casa, l’entusiasmo di un giovane che si avvicina al mercato del lavoro fa presto a trasformarsi in frustrazione e senso di inadeguatezza.
Per ultimo vorrei soffermarmi sulle modalità in cui è avvenuto tale “licenziamento”: non ho ricevuto nessuna comunicazione personale, né alla mia casella di posta elettronica, né per via telefonica ecc. Il giorno in cui tale provvedimento è divenuto effettivo, il direttore del punto vendita in cui lavoravo mi ha notificato, un po’ tra stupore e incredulità, l’arrivo della comunicazione da parte dell’azienda. A lui è toccato l’onere di darmi la notizia, ma considerato il fatto che non si sente parlare d’altro che di licenziamenti tramite sms o e-mail, posso ritenermi fortunato di avere avuto quest’ultimo contatto umano con l’azienda (sigh). Si sa, ambasciator non porta pena.