Azione purissima, autentica, scorrevole, condita da un senso di vendetta degli oppressi godibilissima e salvifica, ma per arrivarci la storia si dilata, si annacqua, si affloscia in più punti
“La famiglia Sully ancora una volta riunita: la nostra debolezza e la nostra forza”. In questa sorta di payoff è racchiuso il senso dell’attesissimo seguito (e della serie tutta) di Avatar, creata e diretta da James Cameron. Avatar: La via dell’acqua, di fondo, è una lunga, metaforica, performativa, ipertecnologica caccia alla preda, o caccia dell’uomo sull’animale, dell’uomo bianco contro l’indigeno. In linea generale Avatar 2, come la matrice originale diventata il film che ha incassato di più nella storia, ci lascia piuttosto indifferenti, con pathos ed epica che sembrano continuamente affogare in ridondanti clichè. Cameron del resto è un regista action e non di strabordanti spiegoni su linee parentali, dialoghi assortiti tra familiari, zuffe adolescenziali a bordo spiaggia. Avatar 2, infatti, è un film dispari, diseguale, tre ore e 12 minuti che decollano solo nell’ultima ora. Azione purissima, autentica, scorrevole, condita da un senso di vendetta degli oppressi godibilissima e salvifica, ma appunto per arrivarci la storia si dilata, si annacqua, si affloscia in più punti. Infine c’è l’anelito ecologista, anzi animalista, incredibile e stupefacente, portato agli estremi che l’Avatar del 2009 a confronto è cosa da nulla.
La famiglia Sully, composta da Jake (l’ex marine disabile diventato abitante meticcio azzurrino di Pandora interpretato da Sam Worthington), dalla moglie Na’vi, Neytiri (Zoe Saldana), dai due figli maschi tardo adolescenti e dalle due figlie femmine più piccole, è fuggita verso l’atollo delle infinite isole del clan Metkayina. Jake cerca di far girare al largo da Pandora il pericoloso “popolo del cielo”, qui in versione gruppo di militari capitanati dal colonnello Quaritch (Stephen Lang), essi stessi trasformati in avatar azzurrini alti oltre due metri con coda, più un manipolo di crudeli cacciatori di animali acquatici attrezzati e armati fino ai denti perfino con robottini subacquei, che vuole nuovamente conquistare con forza bruta e desiderio di devastazione il pianeta dagli spazi incontaminati delle tribù primordiali. I Sully convincono così il clan Metkayina ad una momentanea alleanza. Jack, Neytiri e la loro prole dovranno però imparare a respirare e combattere sott’acqua perché a differenza degli Omaticaya, gli Metkayina, pelle verde smeraldo e tatoo alla Maori, sono un popolo acquatico che, oltretutto, vive in sintonia e perfino parla con pesci e balene, che qui si chiamano tulkun. Superate le diffidenze e gli attriti iniziali tra adulti e ragazzi presto arriva la resa dei conti che avverrà in acqua tra scogli, razzi, gommoni e balene incazzate come bisce. Come spiegavamo poc’anzi le sequenze di combattimento sono qualcosa di sublime e impressionante, il tocco magico della bottega Cameron, amplificate nell’impatto spettacolare da una tridimensionalità che, sia chiaro, comunque nulla aggiunge e nulla toglie allo spessore della storia, anzi.
Nonostante l’incantesimo visivo, la scommessa tecnologica e la buona volontà degli attori, personaggi e sviluppo drammaturgico di due terzi del film sono cinema banalmente monodimensionale. Del resto in questo iniziale, poi centrale blocco si vagola ad unire puntini di tanti brandelli di déjà vu (Jurassic Park, Predator, Rambo) dimostrando la fatica di creare “altro” dal nulla, nonostante i grifoni volanti e le balene-squalo a due occhi per parte, per affondare nell’ “albero delle anime” (non odiateci ma è qualcosa di molto ma molto ripetuto sia dalla Disney che da Aronofsky) e nello “scoglio dei tre fratelli” (non odiateci: una cartolina dai faraglioni di Capri tagliata alla The Beach). Inutile, nel cinema di Cameron è la continuità del movimento a descrivere le figure, quindi affannarsi nel dipingere, scolpire, ravvivare dettagli e ambienti immaginari, paradossalmente rischia di essere un’arma a doppio taglio. Tanto fummo sorpresi dal mondo di Pandora che ora si rimane a surfare senza eccessi di entusiasmo sulle onde delle isole del clan Metkayina. Infine è utile ricordare che Avatar: La via dell’acqua è un film, una storia, un monumento politico ad un’idea ecologista di simbiosi tra uomo (buono) e animale (buono). È infatti nello spirito comune di caccia all’invasore che i Sully, il clan dei Metkayina e una grossa balena tulkun trovano una specie di quieta e rispettosa condivisione del senso della vita e della natura, con un’inquadratura iconica che farà il giro del mondo: Lo’ak, il figlio adolescente di Jack, che sott’acqua e dirigendosi verso il sole, tiene per la pinna un enorme tulkun. Post scriptum: come la mettiamo quando Cameron a chiudere i numerosi twist del terzo blocco d’azione cita se stesso, Titanic, con la nave militare che affonda lentamente? 350 milioni di dollari di budget ma ai quasi tre miliardi di dollari di Avatar non ci arriverà. Pronto qualche Oscar per gli effetti speciali.