di Margherita Zappatore
Sul reddito di cittadinanza se ne dicono di ogni. Non passa giorno che questo tema non monopolizzi il dibattito istituzionale e mediatico portando talvolta con sé proclami privi di fondamento. È bene, quindi, fare chiarezza sugli slogan quanto dell’una, quanto dell’altra fazione, pro e contro la misura.
Andiamo con ordine.
Una fra le principali critiche mosse dai detrattori del reddito di cittadinanza risiede nelle storture derivanti dalla misura, per colpa della quale i percettori sarebbero invogliati a rifiutare proposte di lavoro. Un fenomeno innegabile ma che non può assurgere a motivo della sua abrogazione, finanche parziale. E le ragioni sono molteplici. Anzitutto, a seguito della modifica entrata in vigore nel luglio scorso, il rifiuto di un’offerta congrua a chiamata diretta da parte di un datore di lavoro privato è rientrata nel calcolo dei “no” che costano la perdita del sussidio. Pertanto, il reddito di cittadinanza non può essere tacciato di essere uno stimolo imperituro all’indolenza di pochi quanto, piuttosto, uno strumento temporaneo inscindibilmente legato, per il suo mantenimento, all’accettazione di una proposta di lavoro.
La tesi dei “percettori fannulloni” non regge anche alla luce di un altro dato, quello del numero dei beneficiari-lavoratori. I percettori del reddito di cittadinanza sono, infatti, per il 20% del totale “lavoratori poveri”, cioè persone che hanno un lavoro, ma percepiscono un salario così basso da doverlo integrare per raggiungere la soglia minima di dignità. Allo stesso leitmotiv si lega, poi, la polemica “estiva” sulla mancanza di lavoratori stagionali, anch’essa facilmente confutabile, dati alla mano, considerando che nel 2022 il numero dei contratti stagionali è stato il più alto degli ultimi otto anni, con oltre 440mila assunzioni, con una crescita del 59,6% rispetto all’anno precedente.
Un’altra tesi, del tutto inconferente a favore dell’abrogazione della misura, muove dalle truffe dei percettori che ricevono il sussidio senza averne i requisiti. Sul punto, l’argomento contrario è immediato. Se si dovessero abrogare gli aiuti in vigore a causa degli illeciti di pochi, si danneggerebbero i cittadini onesti. Le truffe sul reddito, tra l’altro, sono una percentuale irrisoria. Basti pensare che, secondo le stime del 2021, il reddito è stato revocato a meno del 3,2% dei beneficiari totali mentre le frodi sul bonus facciate si attestano al 46%. Non manca, poi, chi a buona ragione punta il dito contro coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza e, al contempo, lavorano “in nero”.
Una colpa – rectius, un illecito – da addossare equamente tanto ai lavoratori quanto a quei datori di lavoro che assumono illecitamente e che potrebbero, invece, beneficiare di un importante esonero contributivo se assumessero legalmente i percettori di reddito senza ricorrere al lavoro sommerso. Allargando lo sguardo, infine, non si può ignorare un altro importante tassello del complesso puzzle, cioè le politiche attive del lavoro e i progetti di utilità collettiva, di competenza rispettivamente di Regioni e Comuni. Uno snodo fondamentale per il successo della misura, ma il cui operato è quasi mai messo in discussione.
Ciò detto, il reddito di cittadinanza non può relegarsi a mero strumento di politica attiva del lavoro giacché sarebbe necessaria una riforma strutturale del mercato del lavoro che vada incontro anche alle esigenze delle piccole e medie imprese colpite da una tassazione troppo elevata. Il reddito di cittadinanza deve, invece, ritrovare la dignità che merita quale indispensabile cintura di protezione di fasce deboli. Le quali non sono solo costituite da inabili, anziani e minori, ma anche dai disoccupati, oggi definiti “occupabili”, i quali, non trovando lavoro dopo il periodo Naspi o avendone uno pagato irrisoriamente, si trovano ad essere i nuovi invisibili della società, non essendo tutelati da alcuna altra misura di protezione.