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“Kiev lasci a Mosca i territori occupati nel 2014 per avviare i negoziati”: per Johnson e Kissinger il dialogo parte da Crimea e Donbass

"Le forze russe devono essere respinte al confine de facto del 24 febbraio", scrive l'ex premier britannico sul Wall Street Journal. E sostiene la stessa posizione l'ex segretario di Stato americano perché la Russia non rinuncerebbe mai al territorio che occupa da "quasi dieci anni, compresa la Crimea. Quel territorio potrebbe essere oggetto di un negoziato dopo un cessate il fuoco"

Due interventi su altrettanti giornali, scritti da un ex premier britannico e un ex segretario di Stato Usa che concordano su uno stesso punto per avviare i negoziati del cessate il fuoco in Ucraina: riportare la Russia dentro i confini dei territori occupati dal 2014, ovvero prima dell’invasione iniziata lo scorso 24 febbraio. Quindi non pretendere da Mosca – a differenza di quanto richiesto finora dal leader ucraino Zelensky – il ritiro da Crimea e parte del Donbass. E, nel caso in cui non si riuscisse ad arrivare a questo compromesso, promuovere un referendum supervisionato da osservatori internazionali – a differenza di quello voluto da Putin che si è tenuto a fine settembre – affinché sia la stessa popolazione a esprimersi. A esporre la tesi dei territori ucraini lasciati al Cremlino come punto di partenza per avviare il dialogo sono Boris Johnson – da sempre fedele alleato di Zelensky e divenuto a novembre cittadino onorario di Kiev – e Henry Kissinger, e lo fanno rispettivamente dal Wall Street Journal e dal settimanale conservatore britannico The Spectator. Sebbene ufficialmente Kiev finora abbia posto come condizione di partenza per il dialogo la liberazione di tutti i territori occupati e Usa, Nato ed Europa ribadiscano come debba essere l’Ucraina a stabilire le condizioni della pace, qualora si aprisse uno spiraglio concreto di risoluzione del conflitto da parte di Mosca, allora il punto di partenza potrebbe essere quella di riportare i russi dentro i confini del territorio ucraino che, di fatto, controllano già da oltre otto anni. Di fatto, porre come conditio sine qua non il ritiro rischia soltanto di esacerbare il conflitto, inasprendo ulteriormente i rapporti diplomatici e portando a un’escalation. Con risultati devastanti che non escludono dal ventaglio delle possibilità l’uso delle armi nucleari da parte di Putin nel caso in cui finisse umiliato.

“Non mi interessa quante volte devo dirlo – scrive Johnson nelle prime righe del suo intervento sul quotidiano finanziario americano -: la guerra in Ucraina può finire solo con la sconfitta di Vladimir Putin. Le forze russe devono essere respinte al confine de facto del 24 febbraio. Non è possibile che Volodymyr Zelensky o il popolo ucraino possano accettare un altro risultato, non dopo le atrocità che hanno sopportato. Poiché la guerra può finire solo in un modo, la domanda è quanto velocemente arriveremo all’inevitabile conclusione. È nell’interesse di tutti, Russia compresa, che cali il prima possibile il sipario sulla disavventura di Putin. Non nel 2025, non nel 2024, ma nel 2023“. Una proposta chiarissima, replicata con parole diverse anche dall’ex segretario di Stato americano su The Spectator, che ricorda come già nel maggio scorso avesse “raccomandato di stabilire una linea di cessate il fuoco lungo i confini esistenti dove la guerra è iniziata il 24 febbraio”, perché la Russia non rinuncerebbe mai al territorio che occupa da “quasi dieci anni, compresa la Crimea. Quel territorio potrebbe essere oggetto di un negoziato dopo un cessate il fuoco”. E nel caso in cui non fosse possibile un accordo sul ritorno entro i confini occupati prima del 24 febbraio, a quel punto “si potrebbe esplorare il ricorso al principio di autodeterminazione”, continua Kissinger, con “referendum supervisionati a livello internazionale” che potrebbero essere proposti nei “territori particolarmente divisivi che sono passati di mano ripetutamente nel corso dei secoli”.

La Crimea infatti è stata donata nel 1954 dalla Russia all’Ucraina che, però, faceva all’epoca parte dell’ancora esistente Urss. Dunque, era essenzialmente parte dello stesso territorio. Ma alla caduta dell’Unione sovietica nel 1991 la Crimea, allora e ancor di più oggi, era abitata da russofoni. “Dall’occupazione – si legge sul Guardian, che sottolinea come i diplomatici europei riconoscano uno status speciale all’area – non sono stati condotti sondaggi d’opinione attendibili. Una fuga di notizie sui veri risultati del referendum iniziale sull’annessione nel 2014 ha mostrato che solo un terzo della popolazione ha votato per unirsi alla Russia. Da allora l’economia della Crimea è andata bene e c’è stato un afflusso di circa 300mila russi. Molti attivisti filo-ucraini e tatari di Crimea sono stati nuovamente costretti a lasciare“. Dai territori occupati dai russi, quindi, etnie e minoranze se ne sono andate in massa.

Kissinger: “La Russia non venga umiliata” – Con il ritiro di Mosca ai confini del 2014, spiega ancora Kissinger, “l’obiettivo di un processo di pace sarebbe duplice: confermare la libertà dell’Ucraina e definire un nuovo assetto internazionale, soprattutto per l’Europa centro-orientale”. E anche in questa occasione Kissinger respinge l’obiettivo di umiliare Putin e la Russia. “L’esito preferito per alcuni è una Russia resa impotente dalla guerra. Non sono d’accordo – scrive l’ex segretario di Stato Usa -. Nonostante tutta la sua propensione alla violenza, la Russia ha dato un contributo decisivo all’equilibrio globale e all’equilibrio di potere per oltre mezzo millennio. Il suo ruolo storico non dovrebbe essere umiliato”. Come Johnson, anche per Kissinger non è la prima volta che esprime questa posizione. Già a maggio, nel corso del World Economic Forum, aveva insistito sulla necessità di “avviare negoziati prima che si creino rivolte e tensioni che non sarà facile superare”, aggiungendo che, “idealmente, il punto di caduta dovrebbe essere un ritorno allo status quo ante” di prima dell’invasione. “Continuare la guerra oltre quel punto non riguarderebbe più la libertà dell’Ucraina, ma una nuova guerra contro la stessa Russia“, aveva aggiunto. Un discorso, il suo, che si poneva in contrasto con le dichiarazioni del presidente ucraino Zelensky, che nello stesso convegno di Davos aveva dichiarato che se non si reagisce all’invasione di Vladimir Putin la forza bruta prenderà il sopravvento nel mondo. All’epoca aveva ricordato come la Russia fosse parte dell’Europa e che sarebbe stato un “errore fatale” dimenticare la posizione di forza che occupa nel Vecchio continente da secoli e che l’Occidente non deve perdere di vista il rapporto di lungo termine con Mosca, pena un’alleanza permanente e sempre più forte di quest’ultima con la Cina.