Forte, duro, politicamente scorretto, con idee politiche del tutto contestabili, eppure rispettato da tutti per la sua coerenza: l'ex allenatore serbo è morto a 53 anni dopo una carriera di altissimo livello, sia da calciatore che da tecnico. Dalla Stella Rossa portata a vincere la Champions fino all'amore per Bologna, in mezzo l'amicizia con la Tigre Arkan e le liti con i colleghi (poi diventati amici) per motivi razziali
Raccontava che da bambino col suo sinistro piegava le saracinesche, a Borovo, quando calciava le punizioni. Difficile non credergli: 28 gol tra campionato jugoslavo, Serie A e nazionale, tutte da calcio piazzato, bombe che viaggiavano a 170 chilometri all’ora, numeri che confermano la leggenda delle lamiere piegate. Perciò nessuno avrebbe creduto che Sinisa Mihajlovic non sarebbe riuscito a piegare anche la malattia che gli si è parata davanti e che l’ha portato via a 53 anni. Già, perché Sinisa le difficoltà e le avversità era abituato a prenderle a pallonate: nato a Vukovar ma cresciuto a Borovo, padre serbo e madre croata, comincia a giocare nella squadra della sua città, poi passa al Vojvodina di Novi Sad dove nel 1989 vince il campionato. È naturale a quel punto passare alla Stella Rossa di Belgrado: i migliori giocano tutti lì, il club paga un miliardo e mezzo di lire per averlo, mai nessuno nel calcio dell’ex Jugoslavia è stato pagato così tanto.
Per la verità Boskov lo vorrebbe già in Italia alla Samp: ma è difficile in quel periodo prendere calciatori dalla Stella Rossa e non se ne fa nulla. Sinisa intanto vince tutto: due campionati, ma soprattutto la Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale nel 1991. Una vittoria, quella della Coppa dei Campioni, in cui Sinisa è assoluto protagonista: con una bomba su punizione delle sue, porta in vantaggio la squadra contro il Bayern, in semifinale, nella stessa partita propizia l’autogol di Augenthaler al ’90 quando i suoi erano in svantaggio e la gara sarebbe andata ai supplementari. In finale col Marsiglia a Bari segna il quarto rigore: dopo di lui Pancev metterà dentro quello decisivo. In quel momento Sinisa è, per sua stessa definizione, “il calciatore più popolare di Jugoslavia, anche più di Savicevic”, idolo ovviamente, anche per il temperamento indomito, in particolare degli ultras della Stella Rossa capeggiati da Zeljko Raznatovic, “la tigre Arkan” che di Mihajlovic diventerà amico personale.
Ma intanto in Jugoslavia arriva la guerra, devastante nei luoghi natali di Sinisa, devastante per la sua stessa famiglia: sarà lo stesso allenatore a raccontare come suo zio, croato, chiamasse la madre di Sinisa dicendole di voler “scannare come un porco” il marito serbo. Mihajlovic racconterà anche che lo stesso zio, beccato dalle squadre di Arkan, sarà risparmiato solo in quanto parente di Sinisa. In un quadro del genere a 23 anni non può continuare a giocare in patria: lo aveva cercato il Real Madrid, ma Sinisa è sempre nei pensieri di Boskov appena approdato alla Roma. Il mister convince Ciarrapico a sborsare una cifra vicina ai 9 miliardi per accaparrarselo. Un mercato importante, visto che arriva pure Caniggia: Miha racconterà che nel ’92 l’argentino fregherà il mister e la sua usanza di controllare i giocatori chiamandoli a casa per verificare eventuali “serate” fuori programma. “Come fa a trovarti sempre se sei sempre in giro?” chiederà Sinisa, “Per forza, gli ho dato il numero del cellulare” risponderà “il figlio del vento”. Inizia bene in ogni caso Sinisa con la Roma: è suo il primo gol della nuova stagione in Coppa Italia contro il Taranto, su punizione, tanto per cambiare. Tuttavia quel ragazzo riccioluto all’epoca gioca come ala sinistra: pur avendo ottima tecnica e una personalità importante è un po’ lento per giocare esterno nel campionato italiano, e dunque nelle due stagioni alla Roma non brilla, pur giocando tanto. Sebbene pare che ci sia proprio “Miha” dietro l’esordio di Francesco Totti nel 1993… concordato naturalmente con il “papà calcistico” Vujadin Boskov.
E sempre Vuja, allontanato dalla panchina della Roma, lo consiglia alla Samp nel 1994: i blucerchiati ascoltano il mister e lo prendono in prestito. Eriksson ha la felice intuizione di spostarlo dalla sinistra al centro della difesa: Sinisa diventerà uno dei migliori centrali della Serie A grazie a tecnica in fase di impostazione, carattere da guerriero che gli consente di diventare un ottimo marcatore e le qualità di leader per coordinare i movimenti dei compagni. A Genova resta per 4 stagioni: e in quel periodo trova anche l’amore di Arianna, che diventerà sua moglie e gli darà cinque figli (Sinisa ne ha sei, uno, Marco, è nato da una precedente relazione). Poi Eriksson (e soprattutto Roberto Mancini) lo vogliono alla Lazio, dove Cragnotti punta ad allestire una super squadra per vincere. Sinisa viene pagato 22 miliardi di lire, e ripaga contribuendo a vincere Supercoppa Italiana, Coppa delle Coppe, Supercoppa Europea e soprattutto lo scudetto del 2000.
E oltre a vittorie e record di gol (ne segna 33 negli anni capitolini) risalgono alla Lazio anche gli episodi più controversi della carriera di Mihajlovic: lontanissimo dal buonismo e dal politically correct ha sempre rivendicato il suo forte (ma particolare) nazionalismo, come quando dedicò il necrologio alla “Tigre” Arkan senza prenderne le distanze quando infuriava la polemica: “Ha fatto cose orrende, ma non rinnego un amico”. Un nazionalismo particolare perché più che esaltare la Serbia ha sempre sostenuto che il periodo migliore è stato quello della Jugoslavia di Tito. Risalgono in ogni caso al periodo della Lazio anche episodi di scontri con il rumeno Adrian Mutu, al quale sputò in un match di Champions League o con l’ex Arsenal Patrick Vieira: “Mi ha chiamato zingaro di m. e io gli ho detto negro di m., ma poi siamo diventati amici: certe cose devono restare in campo”.
Insomma, nel rettangolo verde Sinisa era quello che oggi si definirebbe un maestro del trash talking, peraltro per sua stessa ammissione: “Avevo bisogno di un nemico – raccontò il Corriere dello Sport – per rendere al massimo. Mi preparavo a dirgli di tutto nel campo per farlo incazzare e quindi per incazzarmi io”. Idem all’Inter, quando è ormai a fine carriera e studia da allenatore dal suo amico Mancini: in un incontro becca Ibrahimovic all’epoca alla Juve e ci scappa una testata dello svedese, talmente arrabbiato che anche in questo caso però il tutto si risolve in una grande amicizia arrivata fino al palco dell’Ariston. Un’amicizia che comincia quando Ibra si ritroverà Sinisa come secondo di Mancini all’Inter: ricorderà le sue doti di motivatore quando le cose non andavano bene. Doti che hanno permesso poi a Mihajlovic di guidare prima il Bologna, poi il Catania che salverà nonostante la partenza disastrosa e dopo la Fiorentina, dove conquista prima un nono posto e poi viene esonerato. Siede sulla panchina della nazionale serba come commissario tecnico, ma fallisce la qualificazione ai mondiali del 2014 e nel 2013 lascia per tornare alla Samp, ma da allenatore.
Dopo due ottimi campionati alla Samp viene chiamato sulla panchina del Milan: con una squadra assolutamente modesta resta agganciato alla zona Champions fino alla 30esima giornata, poi dopo una doppia sconfitta con Atalanta e Juve viene esonerato. Ricomincia dal Torino e dopo un’ottima prima stagione viene esonerato a metà della seconda. Poi passa allo Sporting Lisbona, ma viene esonerato dopo soli 9 giorni: da lì a gennaio 2019 siede sulla panchina del Bologna, salvando la squadra per quattro stagioni di fila, con la malattia che si fa sentire dopo la prima e straordinaria salvezza, con Sinisa che diventa simbolo, ancora una volta, di lotta e di forza. Viene esonerato nello scorso settembre, una decisione contestatissima. L’ultima uscita pubblica a inizio dicembre, quando fa una sorpresa a Zeman che presenta il suo libro; persino il boemo si commuove alla presenza di Sinisa, salvo poi ritrovare la consueta ironia: “Sinisa prendeva o palla o ginocchio. Più spesso ginocchio”. Poi l’entrata che fa più male: ma stavolta non è di Sinisa, purtroppo.