Ci sono notizie che ti lavorano dentro, lentamente. Non quelle su guerre, regine, delitti e catastrofi, ma piccole storie che a volte affiorano magicamente nel mare tumultuoso delle breaking news. Sono vicende umane intime e individuali ritenute comunque “notiziabili” (un termine orrendo) che, per qualche ragione, ci si appiccicano addosso con la loro intrinseca potenza.

Dunque si ripresenta di continuo alla mia mente, in maniera quasi ossessiva e ingovernabile, una vicenda riportata da alcuni giornali qualche settimana fa: c’è in Canada un coppia che ha tre bambini, tutti affetti da una malattia (la retinite pigmentosa) che inesorabilmente li porterà a diventare ciechi.

Questi genitori hanno così deciso di portarli, per un intero anno, a fare un lungo viaggio intorno al mondo per fargli vedere – ora che ancora possono – il maggior numero possibile di meraviglie che il nostro pianeta può offrire ai loro occhi. Sarà così che, una volta sprofondati nel buio della cecità, potranno almeno rivivere e rivedere mentalmente tutte le bellezze immagazzinate durante questo loro viaggio, tutti questi preziosi ricordi visivi. Una storia commovente, dolce e drammatica nello stesso tempo.

Ma io sono un fotografo, qui parlo di fotografia, ed ecco il cortocircuito che continua a bussare alla mia porta: immaginazione, memoria, visione, ricordo, viaggio, meraviglia, stupore, tempo sono tutte parole strettamente legate alla fotografia così come alla storia dei tre piccoli “esploratori” canadesi. Una parola, però, in apparenza non ci accomuna: cecità. Ecco, allora, una domanda che s’insinua: non è forse, la fotografia, un antidoto contro la cecità? Gli umani di oggi, compressi nella loro corsa verso la “prestazione”, non sanno più osservare. Guardano, ma non vedono. Vedere è un esercizio di meditazione, una pratica zen, vuole tempo e non ce lo possiamo più permettere in ragione della velocità, della superficialità e della produttività. Ma esiste il “mestiere di vedere” e oggi più che mai ha una funzione sociale che pochi gli riconoscono: il fotografo.

Credo dunque si possa fare un parallelo azzardato, ma stimolante tra il viaggio di quella famiglia canadese e il viaggio che tutti noi facciamo e che chiamiamo vita. La fotografia si assume il compito di portarci a vedere il mondo (e non solo nei suoi aspetti meravigliosi) mentre noi, ogni giorno di più, diventiamo ciechi. Se poi vogliamo portare tutto questo alla “possibile sintesi impossibile” dobbiamo ricordare che esistono anche fotografi non vedenti, tra i quali l’autore forse più noto è Evgen Bavčar. Cosa “vede” – e dunque ritrae – un fotografo cieco? Se lo chiedi a lui, ti risponderà: “La mia esperienza della luce”. Va detto che Bavčar non è nato cieco, ma lo è diventato all’età di dodici anni. Un adulto con ricordi visivi raccolti e memorizzati da bambino e ritorna in qualche modo la storia della famiglia in viaggio.

Insomma: in tutti i casi, e comunque la si voglia considerare, la fotografia è e resta, prima di ogni altra cosa, memoria.

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