“Non è colpa mia se sono nato in Africa”. Intervallo con straniero raccoglitore di verdura e frutta senza documenti, senza casa, senza un conto corrente, da Borgo Mezzanone (Foggia). Semplice, amara verità pronunciata da un ragazzo ghanese a poco più di metà di One day one day, documentario diretto da Olmo Parenti con protagonisti gli invisibili braccianti agricoli di una baraccopoli del nord della Puglia. Più di un anno di lavorazione e di girato, poi il rifiuto dei grandi distributori pubblici e privati, infine il tour nelle scuole con spettatori rigorosamente under 18, il film di Parenti (Marco Zannoni, Giacomo Ostini e Matteo Keffer) è la prolungata umana istantanea di una sopravvivenza impossibile tra raccolta di pomodori e delirio esistenziale nei campi, al caldo cocente d’estate, al gelo pesante d’inverno. Africani, qualche bengalese e pakistano, pochissime donne e Borgo Mezzanone, ma anche in un altro paio di zone limitrofe più risicate ma egualmente ai margini della disperazione, come perfino un ragazzo che vive e dorme in un auto destinata allo sfasciacarrozze. Da un lato la quotidianità del lavoro in nero che spacca le ossa con i corpi piegati sui campi, dall’altro la pedina dell’integrazione che non avanza mai di un millimetro. Parenti osserva lo status quo ghettizzato dei suoi protagonisti, ne disegna poetiche traiettorie (il ragazzo che impara l’alfabeto sembra uscito da un film di Ermanno Olmi) ma chiede anche a chi finisce davanti la macchina da presa di mostrare il rifiuto sociale verso di loro privi di tutto: niente busta paga niente affitto, niente documenti niente conto corrente. In pratica, quei 500mila stranieri che vivono oggi in Italia senza permesso di soggiorno non esistono.
Come sei riuscito ad ottenere la fiducia di chi avevi davanti e come sei entrato in questo spazio marginale e “invisibile” della società italiana?
“Nel gruppo che ha creato questo film abbiamo un motto che ci ripetiamo spesso: se chiedi a qualcuno di calarsi le braghe davanti alla videocamera, tu che stai dietro devi calarti braghe e mutande prima di loro. Il segreto forse è che a questi ragazzi abbiamo dedicato del tempo, quando spesso i reportage giornalistici sono fatti in molto minor tempo. Il nostro lusso è stato quello di avere un sacco di tempo per stare lì. Così siamo diventati amici con queste persone. Le sentiamo settimanalmente e cerchiamo in qualsiasi modo di aiutarli”.
Tra la chiusura delle vostre riprese e oggi, si è tentato di smantellare Borgo Mezzanone…
“Lo dicono periodicamente. Lo si è fatto con un altro ghetto della zona, Torretta Antonacci, famoso anche perché l’ex bracciante, oggi deputato Aboubakar Soumahoro, lì aveva girato molti video e piantato la bandiera dell’USB. Dopo aver preso fuoco, pochi mesi dopo, quel ghetto era comunque tornato come prima. La questione, infatti, è trovare un’alternativa a questi luoghi. Borgo Mezzanone è nato negli anni novanta ma è dal 2018 che si è allargato nel vicino CARA (centri di accoglienza per richiedenti asilo) chiuso e abbandonato dopo il decreto Salvini. Chi non otteneva asilo politico veniva sbattuto fuori dal CARA dopo due tre anni di permanenza in Italia. Non sapendo dove andare si fermava lì attorno. In questo modo da piccola baracca, Borgo Mezzanone è diventato una cittadina. Siamo tornati anche la settimana scorsa ed era più grande dell’ultima volta in cui ci andammo.
Da dove si deve partire per modificare realmente la vita dele persone che abitano questo The Terminal della migrazione clandestina?
Il primo gradino sarebbe permettere la loro regolarizzazione. Infatti, se ottieni il permesso di soggiorno più facilmente di quanto accade oggi hai un potere contrattuale maggiore e la possibilità di vivere in un posto normale e non in una baraccopoli. Fino ad oggi politicamente in questa direziona sono stati fatti tentativi ridicoli. L’ultimo che ricordo è la sanatoria del ministro Bellanova: sulla carta sembrava eclatante, nel pratico è stato un flop. Se leggi quella sanatoria, lo capisco anche io che non ho studiato legge o scienze politiche, vedi che si chiede ai datori di lavoro che assumono persone in nero di pagare 400 euro per ciascun lavoratore che vogliono regolarizzare. Quindi chiedi a chi vuole risparmiare per non pagare il salario minimo del settore agricoltura di autodenunciarsi e di pagare per ogni persona? Con il risultato che poi dovranno pagare successivamente di più?
Non tutti i migranti fuggono però da paesi in guerra…
Dobbiamo fargli ottenere un permesso di soggiorno a prescindere dalla provenienza. Non possiamo distinguere tra migranti economici e quelli che scappano da guerre. Chi scappa dal Ghana o dal Gambia scappa da un posto dove non si riesce a vivere. E sarà sempre di più così. Capisco che sia difficile condividere casa nostra, cioè il nostro mondo, con altre presone. Ma nel momento in cui saremmo sempre di più e meno spazio sarà vivibile dobbiamo entrare nell’ottica di condivisione oppure sperare in un’apocalisse dove tre quarti del mondo viene cancellata. L’accoglienza va vista come opportunità e non come fatica.
One day one day ha avuto un suo percorso di distribuzione molto singolare…
Finito il film siamo andati a presentarlo a distributori di cinema e tv. Parlo di chiunque, dalla Rai a La7, a Wildside o Palomar.
E che dicevano?
Lavoro splendido, pugno nello stomaco, però non fa per noi. Oppure ipotizzavano grandi manovre e dopo mesi si facevano di nebbia. Dopo sei sette mesi, allora, ci siamo guardati negli occhi e abbiamo pensato che forse avevamo un fatto film che nessuno vuole vedere perché commercialmente non funziona. Come lo lanciamo quindi un film che nessuno vuol vedere? Non facendolo vedere. Così abbiamo contattato una community online che si chiama Will e fatto una proposta: questo sarà il primo film della storia vietato ai maggiori di 18 anni e che si vede solo nelle scuole e non nei cinema.
Risultati?
500 mail di studenti in tre giorni. Per un mese abbiamo viaggiato da Nord a Sud due volte mostrando il film a migliaia di studenti in presenza. Poi ci ha scritto Roberto Saviano chiedendo di vedere il film. Glielo abbiamo mostrato e da lì parte un nuovo tratto della distribuzione di One day one day: se gli adulti vogliono sbloccare questo film ci vogliono 5000 firme online. In tre giorni ne abbiamo raccolte 12mila e abbiamo trovato un piccolo distributore che ci ha fatto uscire in tante piccole sale di quartiere. Siamo diventati, tra l’altro, il terzo film più visto dell’anno al Beltrade di Milano. Poi abbiamo vinto il premio Cipputi a Bologna durante l’estate e oggi continuiamo ad andar nelle scuole.
Le reazioni dei ragazzi che ti hanno colpito di più dopo aver visto il film?
La differenza principale tra gli spettatori delle scuole e quelli dei cinema è che ragazzini chiedono sempre: diteci cosa possiamo fare, quando saremo adulti vorremo risolvere il problema. Tra gli adulti invece c’è la solita rassegnazione e si cerca sempre un colpevole.
Pensi che avreste potuto girare One day one day nel Nord Italia e non nel meridione?
Sì, assolutamente. È un dato di fatto: ci sono più cause di caporalato in Veneto che non in Puglia. La ragione di girarlo lì è che Borgo Mezzanone è la baraccopoli più grande d’Italia. Suppongo comunque che nel Nord ci siano baraccopoli ma più piccole. Al Sud sono più grosse perché ci sono più centri d’accoglienza. Le associazione non riescono a starci dentro con i finanziamenti, le persone vengono rigettate e si fermano vicine perché fanno meno strada. Siamo altrettanto colpevoli anche “noi” del Nord, insomma.
Siete riusciti a filmare qualche caporale (o “capo” come definito dai braccianti)?
Uno sì, quello di cui si parla proprio all’inizio del film. Però dopo quell’episodio abbiamo deciso di non buttarci su quel tema. Questo non è un film sul caporalato perchè ci sentivamo impreparati. Ci siamo invece concentrati su un altro aspetto: la vita dei braccianti. Tornando al tema dei “capi”, ricordo comunque che ci sono capi “bianchi”, ma anche capi “neri”, cioè chi organizza il lavoro dentro le baraccopoli.
Nel film non viene mai inquadrata una donna: dentro le baraccopoli ce ne sono?
“Sono circa un 10%. Le donne si mischiano con gli uomini e fanno principalmente tre cose: le parrucchiere, cucinano o le prostitute. Girano le baraccopoli d’Italia per cui cambiano ogni tre quattro settimane e sono gestite da altre donne più anziane, come fossero piccoli bordelli. Noi però non siamo riusciti a entrare in intimità con loro come con gli uomini.
Nelle ultime settimane è scoppiato lo scandalo Soumahoro: ti saresti mai aspettato un clamore del genere?
Non l’ho mai conosciuto direttamente, ma basta fare un giro per le associazioni che lavorano nella zona di Foggia per capire che in pochi parlavano con piacere di questo signore. Sapevamo che qualcosa prima o poi sarebbe successo. Abbiamo provato anche a coinvolgerlo, poi abbiamo capito che non era necessario. Quando abbiamo finito di girare abbiamo pensato di chiedergli una mano, lo abbiamo anche invitato a vedere il film sia a Roma che a Modena dov’era candidato, ma non è mai venuto. Ma come? Sono i tuoi temi, la tua lotta, perché non la utilizzi visto che le persone ti ascoltano? Spero che le cose che ha detto in questi non fossero retorica volta a guadagnare posizione di potere.